Il massiccio del Gran Sasso è disposto lungo un asse prevalente ovest-est, sicché l’ambiente dei due versanti montuosi è molto diversificato. In questa nota verrà esaminato solamente il versante settentrionale poiché l’abete vegeta spontaneamente soltanto in questo settore. Il clima del massiccio è, nonostante la vicinanza del Mare Adriatico, piuttosto continentale. Le escursioni termiche giornaliere sono notevoli, in particolare alle alte quote. La piovosità annua sul versante settentrionale è abbondante: 1300 mm annui ad Isola del Gran Sasso (415 m slm), più di 1800 mm alle alte quote, ma nettamente inferiore alle precipitazioni che si hanno sul versante tirrenico appenninico. La distribuzione delle piogge ricalca un po’ quella del clima mediterraneo, ma la particolare morfologia e la sua vicinanza al Mare Adriatico, determinano, con il rapido innalzamento delle masse d’aria provenienti dal mare e la successiva condensazione in nubi e precipitazioni, frequenti temporali e nebbie durante la stagione estiva. I boschi si trovano su terreni derivanti da calcari e marne, in particolare l’abete vegeta esclusivamente su terreni arenaceo-marnosi.
La distribuzione e la composizione dei boschi ricalcano pressappoco quella delle altre montagne appenniniche: a partire dai 400 metri fino agli 800-900 troviamo la fascia fitoclimatica del Castanetum nella quale vegetano principalmente il cerro {Quercus cerris L.), la roverella {Quercus pubescens L.) ed il carpino nero {Ostrya carpinifolia L.), quest’ultimo soprattutto nelle zone con terreno più superficiale. A partire dai 900 metri fino al limite della vegetazione, nella fascia fitoclimaìica del Fagetum, troviamo estese faggete nelle quali compaiono anche altre latifoglie, quali ad esempio l’acero di monte {Acer pseudoplatanus L.) e sporadicamente il tiglio {Tilia platyphyllos L.). L’abete vegeta nella sottozona fredda del castanetum ed in tutta la fascia fitoclimatica del fagetum.
Vicende storiche
E’ stato facile ricostruire la struttura e la composizione dei boschi del Gran Sasso fin dall’inizio del secolo scorso attraverso l’analisi di documenti storici e l’osservazione di vecchie fotografie di repertorio, nonché facendo riferimento ai vecchi lavori del Banti (1939). Inoltre, alcuni vecchi toponimi riportati sulle carte topografiche dell’Istituto Geografico Militare ed altri di uso locale consentono di provare concretamente la passata esistenza dell’abete in una area ben più vasta dell’attuale. Ad esempio, esiste un “Pian dell’Abete” situato ai piedi del Colle delle Monache e circondato da un ceduo di faggio, con una sola pianta di abete, nelle vicinanze. Nei pressi dell’abitato di Nerito vi è la località “Abete”, nel 1935 occupata da un ex coltivo (Banti, op. cit), ora evoluto in orno-ostrieto. Nel XVII secolo è molto probabile che l’abete vegetasse ancora lungo quasi tutto il versante settentrionale del Gran Sasso, dalla Valle del Chiarino al Monte Camicia. Molto probabilmente già allora il declino della specie era evidente, in quanto molti dei boschi, soprattutto quelli prospicenti i grandi centri urbani di Isola del Gran Sasso e Castelli, erano assai sfruttati, anche per esigenze industriali (ceramiche di Castelli). Al contrario, nel settore occidentale del massiccio del Gran Sasso, caratterizzato come era da piccolissimi paesi e pressoché isolato dalle grandi vie di comunicazione, eccezion fatta per il castello di Chiarino, i boschi conducevano una vita relativamente tranquilla, sicché la struttura, ma soprattutto la composizione, erano ancora vicine alla naturalità. Certamente il pascolo già allora aveva arrecato e continuava ad arrecare non poco danno ai soprassuoli forestali, ma le utilizzazioni scarse e dettate dalle necessità dei pochi abitanti della zona comunque avevano una moderata incidenza sulla fertilità dei boschi. Intorno al 1840, nel bosco di Lamalunga-Incodaro, si tagliavano ancora abeti e faggi alti più di 36 metri, a testimonianza di una fertilità ancora notevole. Secondo quanto riportato dal Banti, dal 1849 al 1856 si tagliarono 60 piante di abete per armare dei ponti e nel 1852 la densità media del bosco ad alto fusto era di 2890 piante ad ettaro, cifra assai elevata, che testimonia la giovane età dei soprassuoli. La consistente presenza dell’abete nella cenosi forestale forniva ancora abbondante legname da opera ai paesi adiacenti. Ancora oggi sono visibili strutture nelle vecchie case realizzate con legno di abete e risalenti alla fine del secolo scorso. A partire dal 1910-1915, in coincidenza con il primo conflitto mondiale, la situazione cambiò radicalmente: il bisogno sempre crescente di legname portò ad un intensificarsi delle utilizzazioni che, sempre più pesantemente, presero ad interessare anche e soprattutto quei lembi di bosco che sino ad allora avevano risentito meno dell’azione antropica. Inoltre, non dimentichiamo che l’abete ha rappresentato per secoli l’unica fonte appenninica di legname di resinose e questo contribuì non poco a decretarne la scomparsa. In base alle vecchie foto possiamo affermare che, nei boschi ad alto fusto, il trattamento più usato fu quello del taglio raso con riserve; di conseguenza vennero utilizzate sempre le piante migliori, specialmente di abete; le riserve furono lasciate sempre a distanza eccessiva, sicché la rinnovazione ebbe notevoli difficoltà ad insediarsi nei vuoti lasciati. In alcune zone si tagliò sul giovane, probabilmente giovani perticaie; queste ricacciarono dalle ceppaie dando così origine a dense macchie di cedui all’interno delle fustaie, ancor oggi ben evidenti. L’abete fu fortemente penalizzato a tal punto che rimasero solamente le vecchie riserve a testimonianza della passata esistenza di un bosco misto, laddove invece ora regnava una rada faggeta in rinnovazione. Il pascolo certamente contribuì in maniera determinante alla rarefazione dell’abete, eliminandone sistematicamente ogni tentativo di rinnovazione. Nel 1935-37, anno delle rilevazioni del Banti l’abete vegetava ancora nel bosco di Lamalunga-Incodaro con appena un centinaio di piante dal diametro compreso tra i 30 ed i 100 cm, fatto questo che conferma quanto esposto sopra. Purtroppo il Banti non descrisse lo stato della faggeta, definendone solamente la forma di governo ad alto fusto. In una fotografia risalente al 1941 è ben visibile la struttura di faggeta in rinnovazione, con ampi spazi degradati: a trent’anni dai tagli la rinnovazione non era ancora riuscita a colmare le ampie chiarie all’interno del bosco stesso. Inoltre, sempre osservando queste foto, si può notare l’ulteriore degradazione e diradamento di alcune parti del bosco, fatto questo causato molto probabilmente dalla azione congiunta di alcuni tagli abusivi e pascolo incipiente. In quella data erano anche visibili i primi segni di dilavamento delle superfici denudate. Nel 1956, in fotografie eseguite dai vicini Monti della Laga, l’abete era ancora presente in esemplari sparsi nella faggeta; si trattava perlopiù di piante plurisecolari e monumentali , spesso di cattiva forma o cariate, danneggiate dalla condizione di isolamento in cui vegetavano da decenni. Nel frattempo la faggeta stava riacquistando la fisionomia di bosco chiuso. Ancora nel 1967 erano presenti abeti plurisecolari, ma questi vennero eliminati nel taglio di sgombero del 1971, che mirò a diradare la perticala di faggio e ad eliminare tutte, o quasi, le poche decine di piante plurisecolari di faggio ed abete. In quell’occasione caddero al suolo abeti di 170 cm di diametro; i tronchi di questi monumenti, abbandonati nel letto di caduta, erano ancora ben visibili negli anni ‘80. Da quella data il bosco di Lamalunga-Incodaro è stato lasciato tranquillo, eccezion fatta per pochi interventi, volti in parte ad avviare all’alto fusto le particelle ceduate agli inizi del secolo. Nel Bosco Segadacqua-Pian d’Abete, ancora nel 1935-37, vegetavano circa 3200 piante d’abete, con esemplari fino a 40 cm di diametro. La faggeta, secondo il Banti, allora era governata ad alto fusto, ma pochi anni dopo i 150 ha di bosco vennero convertiti tutti in ceduo semplice ed utilizzate tutte le piante d’abete di diametro superiore ai 20 cm. Nel 1950-55 circa, nella parte bassa del bosco Segadacqua-Pian Abete (rinominato Codaro-Campiglione), di proprietà demaniale, vennero collocate a dimora alcune piante di abete che hanno avuto un ottimo sviluppo. Nella restante parte del massiccio montuoso le vicende storiche sono pressappoco simili se si esclude una pressione antropica presente da più lungo tempo, fatto questo che causò una scomparsa anticipata dell’abete rispetto all’alta Valle del Vomano.
Stato attuale delle popolazioni di abete bianco
Oggigiorno l’Abete bianco occupa superfici molto esigue ed ha un’importanza molto limitata nelle cenosi forestali del Gran Sasso. Per maggiore chiarezza ho preferito suddividere il massiccio in due settori ben definiti (occidentale ed orientale) che per convenzione farò terminare in corrispondenza dei Prati di Tivo, amena prateria ricavata a spese del bosco di faggio qualche secolo fa.
Settore occidentale
In questo settore troviamo l’Abete bianco solamente alle falde del Monte Corvo e più precisamente nel bacino del Fosso Rocchetta e sul versante sinistro idrografico del Fosso Venacquaro. Nel bosco di Lamalunga-lncodaro (Fosso Rocchetta) il soprassuolo è costituito da una giovane fustaia di faggio coetanea e irregolare, con all’interno gruppi di ceppaie, mentre nel bosco Segadacqua-Pian d’Abete (Fosso Nerito, affluente sinistro del Fosso Rocchetta) prevale il ceduo semplice o matricinato, in minima parte avviato all’alto fusto. L’età dei soprassuoli di faggio varia dai 70 anni dei cedui, ai 80-120 delle fustaie; in quest’ultima comunque sono presenti esemplari plurisecolari di faggio (fino a 1 m di diametro), particolarmente nella fustaia biplana sotto il Colle Abetone, residuo di un intenso taglio a raso ottocentesco (lo stesso di Fonte Novello). Frequenti i fenomeni di erosione e dilavamento laddove il pascolo è riuscito ad impedire la rinnovazione del bosco. L’abete vegeta nel ceduo di faggio con piante isolate e vecchie ma di dimensioni molto contenute. La rinnovazione è scarsa ed irregolarmente distribuita all’interno del ceduo. Nella fustaia coetanea l’Abete bianco è presente ancora in discreta quantità. Le piante adulte sono tutte deperienti ed era facile, negli anni ’80 del secolo scorso, incontrare all’interno del bosco esemplari schiantati al suolo e ceppaie marcescenti di piante cariate di notevoli dimensioni (fino a 170 cm di diametro – vedi galleria fotografica). Le piante adulte non fruttificano più ormai da anni e le piantine di pochi anni provengono dagli abeti del ceduo sul lato opposto della vallata. La rinnovazione è discretamente abbondante ma si localizza per lo più sottovento alle piante madri. Talora sono presenti vere e proprie macchie di novellarne disposte a goccia sotto le piante adulte. Le poche piantine di abete sparse nella faggeta sono quasi tutte aduggiate, con la chioma ridotta e inserita in alto e non sono rare quelle secche. Nella parte alta della foresta, in prossimità del Colle Abetone (già Colle di Cesanergia), in una faggeta adulta in rinnovazione, sono presenti giovani piante di abete che prepotentemente inseriscono le proprie chiome tra le fronde dei faggi con notevoli accrescimenti longitudinali. Piante isolate di abete si ritrovano nella faggeta attorno Pratoselva, sotto forma di giovani piante sottoposte al faggio. E’ presente anche un piccolo nucleo di abete di origine artificiale, di buon sviluppo, di circa 30 anni di età. Nel 1986 sono state trovati diversi esemplari di abete anche nella Val Venacquaro, proprio sopra il Bosco di Fonte Novello, di giovane età. Questi esemplari, non citati nel precedente lavoro del Banti, sono molto probabilmente figli di qualche abete isolato non più esistente.
Un piccolo nucleo di abete si trova addossato al ripido versante settentrionale del Monte Cardito (Bosco Canaloni). Si tratta di alcune decine di esemplari adulti e vecchi di abete, misti a faggio e betulla, posti in luoghi difficilmente accessibili, ma pur tuttavia utilizzati in passato. La faggeta è governata a ceduo matricinato e la rinnovazione dell’abete è sempre presente poiché la forte pendenza del sito favorisce una buona illuminazione laterale. L’abete è presente in località Tre Monti,Vena Rossa e Fosso Ravano. La natura litologica è la stessa della Laga: banconi di arenaria e marne; la pendenza è molto accentuata; frequenti i salti rocciosi; l’esposizione a nord-ovest, nord e nord-est. Le piante di abete sono distribuite in due nuclei, di diversa entità. Il primo, il maggiore, è costituito da diverse centinaia di abeti abbarbicati ai ripidi pendii e non oltrepassano i 40cm di diametro. A poca distanza, sotto la cima Tre Monti (1402m), si trovano grossi esemplari secolari e secchi di quasi un metro di diametro e alti 20-25 metri. La rinnovazione è attiva e l’abete tende ad espandersi in tutte le direzioni tranne che nel fitto ceduo di faggio. Piante isolate di abete si trovano anche nella Valle del Chiarino, lato orientale idr. Sempre nella Valle del Chiarino, lungo il corso del Vomano, sono state osservate diverse piante di betulla (Betula pendula Roth.), in un ceduo misto con pioppo tremolo (Populus tremula L.) e salicone (Salix caprea L.), vibisili dalla strada statale SS80.
Settore orientale
L’Abete bianco vegeta spontaneamente solamente alle falde del Colle Pelato, nella Selva degli Abeti o Selva di Ornano. Il soprassuolo è costituito da un ceduo di faggio parzialmente avviato all’alto fusto in discrete condizioni vegetative. L’età del ceduo varia dai 45 agli 80 anni delle particelle avviate all’alto fusto. L’abete forma popolamenti misti con faggio ed acero di monte ma alcuni tratti sono edificati solo dall’abete. L’età presumibile varia dai 60 ai 140 anni ma le piante mature sono in numero molto esiguo. La forma dell’abete è discreta ma dovunque sono ben visibili i segni di un precoce invecchiamento delle piante stesse. La statura non oltrepassa i 25 metri e sono numerosi gli esemplari cimati dalla galaverna. Il bosco è a contatto diretto con alcune superfici agrarie abbandonate ed ora in corso di ricolonizzazione da parte di arbusti pionieri. Probabilmente l’intera Selva degli Abeti era un tempo assai più vasta ma, a causa della ceduazione del bosco in alto e dell’espansione delle colture in basso, l’areale originario si è contratto notevolmente. Testimonianza delle potenzialità dell’abete è la lenta risalita che la specie sta attuando verso il Colle Pelato e in basso, nei cedui misti, di specie eliofile. La rinnovazione è presente in discreta quantità e si localizza soprattutto nelle aree maggiormente illuminate e sotto le piante di faggio mentre manca totalmente nei tratti di solo abete. Nelle altre foreste del settore orientale l’abete allo stato spontaneo non esiste più ma, alcuni coniferamenti effettuati nei cedui di faggio al momento dell’avviamento all’alto fusto, alle falde settentrionali dei monti Prena e Brancastello (S. Colomba), hanno consentito all’abete di ridiffondersi in spazi già occupati dalla specie in passato.
Considerazioni
La distribuzione e la consistenza attuale dei nuclei di abete sul massiccio del Gran Sasso sono decisamente frammentarie e complessivamente scarse. Come già posto in evidenza dal Banti più di un cinquantennio addietro, l’abete sul Gran Sasso è in continua regressione sia territoriale che numerica e, nonostante la pressione del pascolo e delle utilizzazioni sia venuta attenuandosi negli ultimi decenni, la specie dimostra difficoltà a riprendersi. La causa molto probabilmente va ricercata nello stato attuale dei boschi, i quali dopo secoli di profonde alterazioni vedono oggigiorno totalmente stravolti gli equilibri ecosistemici. L’abete è in via di estinzione nel ceduo di faggio del bosco Segadacqua, mentre nella regione attorno al Colle Abetone (Bosco Vadillo e Lamalunga-Incodaro) la situazione, dopo il collasso avvenuto nella prima metà di questo secolo, va riprendendosi molto lentamente. Nel settore orientale la situazione è migliore in quanto nell’unica stazione di vegetazione naturale dell’abete la consistenza della specie è notevole. Appare chiaro, quindi, che la forma di governo del bosco a ceduo ed il trattamento del bosco misto di faggio ed abete a taglio raso con riserve, aggravato da un pascolo di fatto incontrollato, sono assolutamente inconciliabili con la permanenza dell’abete nel bosco stesso. L’abete, anche in questo caso, dimostra di essere una specie poco adattabile a perturbazioni ecologiche (vedi articolo ‘L’Abete e l’Appennino”). Le potenzialità dell’Abete bianco sul massiccio del Gran Sasso, come anche in altre parti dell’Appennino, sono notevoli. Tutti gli impianti effettuati nel corso di questi ultimi decenni hanno avuto esito positivo, indicando così che la specie possiede ottime capacità di affermazione soprattutto nella sottozona calda del fagetum. In base alle osservazioni dirette, l’optimum dell’abete si può collocare nella fascia altitudinale compresa tra i 1200 ed i 1650 metri. Nel massiccio del Gran Sasso vale come esempio delle potenzialità dell’abete l’impianto di Fonte Vetica, risalente al 1901. L’abetina di Fonte Vetica è situata alle falde meridionali del Monte Camicia, in aree già occupate dal bosco, tra i 1600 ed i 1750 metri. L’esposizione è a mezzogiorno, la pendenza moderata, la matrice geologica calcarea. Le precipitazioni si aggirano attorno ai 1200 mm annui, non molte e concentrate esclusivamente nel semestre invernale. Condizioni limitanti sono la ventosità e la neve. Durante l’inverno vere e proprie bufere si abbattono nella zona ed alcune piante schiantate ne sono la testimonianza; la neve, presente da novembre a maggio raggiunge l’altezza di 2 m. L’ambiente è decisamente ostile, ma l’abete è cresciuto, ha fruttificato e si è rinnovato tranquillamente. All’epoca dell’impianto vennero consociate all’abete la picea, il larice, il pino nero di Villetta Barrea e qualche esemplare di faggio (forse già presente). C’è da sottolineare che l’ambiente naturale di Campo Imperatore è tra i più desolanti e proibitivi dell’intera catena appenninica ma, nonostante ciò l’Abete bianco ed il faggio sono state le uniche specie che hanno dimostrato di sapersi adattare e rinnovare in condizioni tanto estreme.Per ulteriori dati si rimanda all’opera citata in bibliografia.
La distribuzione altitudinale dell’abete sul Gran Sasso varia da un minimo di 800 m nella Selva degli Abeti ad un massimo di 1700 m nel bosco di Lamalunga-Incodaro. Questa grande ampiezza altitudinale è simile a quella riscontrabile sui vicini Monti della Laga. Anche qui l’abete, presente solo sul versante adriatico, occupa tutta la zona fitoclimatica del Fagetum, da 900 metri, arrivando quasi ai limiti della vegetazione arborea, a 1800 metri. L’optimum è compreso tra i 1100 ed i 1600 metri. La cosiddetta discesa dell’abete, sui massicci del Gran Sasso e dei Monti della Laga, non ha luogo. Da quanto esposto sino ad ora, si può evincere facilmente che la regressione dell’abete sul Gran Sasso, lungi dall’essere un fatto naturale, evidenzia il carattere poco adattabile della specie stessa ad alterazioni indotte dall’uomo sull’ecosistema bosco. Evidentemente l’Abete bianco mal si adatta alle forme di trattamento fino ad ora praticate. La specie regredisce rapidamente, in pochi decenni, di fronte all’azione sinergica del pascolo e degli interventi selvicolturali concentrati nel tempo (taglio raso, diradamenti eccessivi…), giungendo in molti casi alla scomparsa.
RILIEVI DENDROMETRICI DEI BOSCHI DEL GRAN SASSO: Gran Sasso
RIASSUNTO
L’abete, un tempo diffuso su tutta la catena appenninica, attualmente si trova relegato in alcune ristrettisime aree di vegetazione. L’autore, evidenziate le vicende storiche di alcuni boschi del massiccio montuoso del Gran Sasso, ove era ed è ancora presente l’abete, estrapola alcune considerazioni sulle probabili cause che hanno portato nel corso dei secoli la specie esaminata ad una progressiva, inesorabile, contrazione del proprio areale a favore di altre specie, come ad esempio il faggio. Inoltre, sulla base di alcuni interventi di coniferamento e rimboschimento effettuati nei primi anni del secolo con abete, sono posti in risalto gli ottimi risultati avuti con l’impiego di tale specie. A conclusione del lavoro, l’autore si augura che venga attribuito maggior valore ali ‘abete nella selvicoltura appenninica.
SUMMARY
SILVER FIR (ABIES ALBA MILL.) ON THE GRAN SASSO D’ITALIA: DISTRIBUTION, HISTORY, ECOLOGY
Silver Fir (Abies alba Mill.), once copious ali over the Appennins, at present it is confi-ned on a little number of mountains. The author makes evident the historical events of some forests of the Gran Sasso mountain where Silver Fir lived and stili lives today. On the issue of this historical study, the author turns out some considerations about probable causes of contraction of its areal, with expansion, on the contraty, of other spe-cies, for exmple Fagus sylvatica. Besides on the issue of some forestation carried out in the first years of this century with Silver Fir, the author makes evident the excellent result of these species. At last, the author hopes that these species will be used in Appenninican selvicolture in the future, much more.
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