Ambiente forestale
I boschi più estesi sono confinati sulle montagne, mentre i cosiddetti “boschi planiziali” sono ridotti a ben poca cosa. Uno degli ultimi lembi lasciati dall’uomo è il querceto misto del Bosco degli Astroni, assai interessante dal punto di vista ecologico e dinamico-strutturale. Oltre a questo esempio, rimane anche la famosa cerreta di Serre-Persano, Oasi del WWF, oppure l’altra cerreta di Cognole, nel Cilento; ma generalmente i boschi submontani sono ancora discretamente presenti nella regione. Padrone indiscusso delle montagne è certamente il faggio, favorito anche da una generale abbondanza di precipitazioni e da un substrato pedogenetico a lui molto favorevole (calcari secondari ricoperti di lapilli). Le migliori faggete le ritroviamo in tutta la parte interna della regione. Si tratta di fustaie molto estese e di buona consistenza. Da evidenziare la faggeta del Taburno, conservatasi pressoché integra nella sua estensione, nonostante i tagli a raso e la ceduazione, per il vincolo imposto dall’Amministrazione borbonica – serviva alla buona regimentazione delle acque che rifornivano il Palazzo Reale di Caserta. Stupendi faggi colonnari, alti più di 30 metri, svettano ancora nell’altopiano a nord della vetta (1.373 m), mentre il ceduo invecchiato è stato avviato all’alto fusto e coniferato con Abies alba Mill.. Il tutto condito con un ricco sottobosco di Ilex aquifolium L.. Nel Matese, improvvide scelte colturali del passato (purtroppo ancora attuali) hanno deteriorato gran parte dei soprassuoli edificati dal faggio, riducendoli non di rado a pascoli cespugliati, soprattutto alle alte quote (M.Mutria). Solamente attorno alle gole del Quirino, ma in territorio molisano, si ritrovano fustaie mature ed imponenti. Nel gruppo dei Picentini, seppur intensamente sfruttati dal 1920 in poi, le condizioni delle faggete sono ancora ottime. La legge borbonica prima e la sapiente gestione di avveduti forestali poi, hanno permesso di conservare la forma di governo a fustaia pressoché dovunque. In evidenza i tratti dove ancora colossali faggi, rilasciati in base alla legge borbonica del 1826, svettano sopra le deboli spessine e le perticaie mai diradate (M. Termino e Cervialto).
Più a sud, sui massicci dell’Alburno-Cervati, estese faggete ricoprono i versanti delle montagne, generalmente governati ad alto fusto. Soprattutto sugli Alburni il manto forestale è continuo e, fatto importante, almeno fino alla fine degli anni ’50, era presente, nel comune di Corleto Monforte, un esteso lembo di faggeta allo stato seminaturale (129 ha), degno risultato di una rivendicazione secolare tra il suddetto comune e quello di S. Rufo (Susmel, 1959). Qui l’ambiente pedoclimatico è estremamente favorevole al faggio e, difatti, nonostante i tagli a raso della legge borbonica, il pascolo incipiente e reiterati tagli contemporanei, la faggeta è ancora in buone condizioni vegetative ed in netta ripresa su tutte le altre specie forestali. Nell’ambito delle formazioni forestali campane merita una citazione la presenza diffusa, ma sempre puntiforme, della betulla (Betula pendula Roth), particolarmente estesa nel gruppo del Cervati, dove la si ritrova, oltre alle numerose stazioni citate da Agostini (1981), anche nella splendida conca di Vallivona, tra i 1.000 ed i 1.650 metri e sui Monti della Maddalena. L’abete è presente su tutti i massicci montuosi, ma sempre in modo molto sporadico.
Presenza storica dell’abete
Le testimonianze storiche su una passata presenza dell’abete in aree in cui oggigiorno è assente sono state riportate da Giacobbe (1950) a proposito della penisola Sorrentina, dove, secondo Cavolini (1924), vegetava ancora alla fine del 1700. Nel gruppo del Terminio (1.803 m) e del Cervialto (1.809 m) è stato segnalato agli inizi del 1800 da Gussone come “raro nel gruppo del Cervialto” e da Tenore (1823) per il bosco “Ogliara”, nella zona compresa tra il M. Terminio ed il M. Mai (1.676 m). Da ricerche personali effettuate nel 1995 e su informazioni del Corpo Forestale dello Stato, nella zona è stata accertata solamente la presenza abbondantissima di tasso e agrifoglio. Nel lavoro di Rovelli (1995) vengono illustrate anche altre località dei Picentini dove sussistono tuttora toponimi indicanti la passata esistenza di boschi d’abete: il Pian dell’Abete, sotto il M. Polveracchio; oppure degli Alburni: l’abitato di Petina. Sul versante occidentale del Motola-Cervati, nei pressi dell’abitato di Piaggine si trova la regione “Abetinella Scalelle”, ora cespugliato; il monte glabro Raia della Petina, la conca “Petina” ed il Passo della “Beta” (da Abete) sul M. Gelbison.
Un ultimo centro di vegetazione dell’abete, si trovava, fino agli anni ’60, come risulta da un vecchio piano di assestamento dei boschi di Vallo della Lucania, sul versante settentrionale del M. Sacro o Gelbison (1.705 m). Al contrario, numerose testimonianze circa una sua passata presenza più consistente le abbiamo osservando le travature di molte case di Novi Velia e Cannalonga, realizzate con legno d’abete.
Diffusione attuale dell’abete
Matese
Su queste montagne si è trovato solamente un esemplare (Rovelli, 1995), nella densa faggeta che ricopre i contrafforti settentrionali della Serra di Mezzo (1.352 m). L’abete possiede un’età approssimativa di 40-50 anni ed è in buone condizioni vegetative. L’esemplare è inserito in una faggeta coetanea monofitica, in buone condizioni vegetative, allignante su suoli bruni calcarei, di scarsa e media profondità.
Picentini
Nel gruppo del Terminio (1.806 m) è rimasta solamente una pianta d’abete (notizie 1997), insediata su un contrafforte roccioso di una delle tante creste che si dipartono dalla conca sommitale del monte, a 1.550 m. La pianta è ben visibile dalla vetta settentrionale del Terminio, in basso, in direzione sud-ovest. Secondo La Valva et al., detta località è denominata “Vallone del Balordo” (La Valva et al., 1982), ma “Ogliara” secondo la toponomastica IGM. L’esemplare è biologicamente maturo, anche se non di età sostenuta. Le sue dimensioni sono di 50 cm di diametro per 20 metri di altezza. Non è presente rinnovazione naturale. I boschi adiacenti sono edificati da faggio allo stato puro nelle stazioni più fresche e misto a carpino nero (Ostrya carpinifolia Scop.) nelle aree più rocciose ed esposte. Non è ben chiara la forma di governo di queste isole rocciose; ad una prima analisi sembra essere ceduo “invecchiato”, ma questo potrebbe essere anche il naturale comportamento di formazioni in evidente difficoltà adattative. Inoltre, il pascolo caprino effettuato in passato ed i tagli a raso, hanno alterato totalmente l’assetto naturale di tali formazioni predisponendole a involuzioni pedologiche e fisionomiche.
Nel gruppo del Cervialto (1.809 m) l’abete è stato segnalato da Hofmann (1991) che lo indica per la Vallebona di Acerno, mentre La Valva et al. (1982) lo segnalano per il M. Raiamagra (1.667 m). Nel corso di ricerche effettuate con l’ausilio del Corpo Forestale dello Stato, sono stati trovati, complessivamente, 5 esemplari adulti di abete, di cui 2 nella Vallebona di Acerno: di questi, il primo e il più giovane, si trova nella splendida faggeta che ricopre il versante settentrionale del monte omonimo. Qui il bosco è edificato dal faggio, nettamente dominante sulle altre specie, governato ad alto fusto coetaneo, di spettacolare imponenza ed elevata statura ( > 30 m). Il suolo è sempre molto profondo ed assai fertile, ricco di humus. Nel sottobosco, abbondante Allium ursinum L., Vinca minor L., tasso e agrifoglio, che costituiscono il sottobosco consueto delle faggete dei Picentini. L’esemplare è alto una decina di metri e si trova in corrispondenza di alcuni dossi rocciosi, a 1.080 m e fa parte del piano dominante del bosco; presenta un buon incremento longitudinale e, nei pressi, si riscontra anche la presenza di giovani abetini di pochi anni. Il secondo, anch’esso situato in luoghi aspri e rocciosi, è situato nei pendii che digradano dal Piano del Cupone (1.170 m) nella Vallebona, a 1.000 m circa. È un esemplare adulto ed è l’unica riserva d’abete del precedente ciclo colturale. Un altro abete vegeta sulle coste meridionali del Cervialto, proprio sopra il Piano Migliato di Calabritto (1.248 m), ad oltre 1.500 m. Si tratta di una pianta biologicamente vecchia e di modeste dimensioni, inserita in una faggeta di mediocre portamento, soggetta alle avversità meteorologiche di alta quota. Il diametro è di 30 cm e l’altezza raggiunge a malapena i 12 metri.
Un altro soggetto è isolato nella faggeta coetanea che ricopre il versante occidentale del Cervialto, in località Filicecchio, a 1.400 m, su di un dosso ed è ben visibile dalla carrabile Laceno-Acerno. A questi esemplari adulti se ne devono aggiungere altri dispersi nelle faggete del Cervialto. Sono in numero indefinito e sono tutti aduggiati dal faggio. Altri quattro esemplari, biologicamente vecchi, sono stati ritrovati all’interno di una perticaia non diradata di faggio sul versante settentrionale del M. Polveracchio (1.794 m). L’ultimo esemplare è collocato nel versante settentrionale del M. Raiamagra, sempre in corrispondenza di affioramenti rocciosi nella faggeta e, anche in questo caso, si tratta di una pianta giovane che fa parte dell’attuale ciclo colturale della faggeta. All’infuori di questi abeti, non è stata riscontrata nessuna traccia della specie nelle grandi faggete dei Picentini, anche se in base agli scritti di Hofmann, risalenti con molta probabilità agli anni ’50, gli esemplari di abete dovevano essere, allora, assai più numerosi. Sicuramente si trattava di vecchie riserve borboniche che sono state eliminate in un periodo nel quale era molto in voga la “caccia al vecchione”. A riguardo della faggeta della Vallebona di Acerno sappiamo con certezza che sul finire degli anni ’50 venne interessata da un vasto taglio a raso che ebbe anche una risonanza giudiziaria. Questo drastico intervento, se da un lato non provocò nulla di grave nella faggeta, in ottimo stazionale, dall’altro provocò la quasi totale eliminazione dell’abete. Da ultimo, non ci si può esimere dal citare le numerose piante gigantesche di faggio ed acero che, qua e là, punteggiano i boschi del massiccio. Tra le molte si citano il faggio di Piano Migliato di Calabritto che misura oltre 6 metri di circonferenza per 30 metri di altezza, di aspetto veramente imponente e gli aceri attorcigliati di Piano Migliato di Bagnoli.
Alburni
Il massiccio degli Alburni è ricoperto di magnifiche e dense fustaie di faggio, imponenti ed estese. Qua e là sono presenti ancora monumentali faggi e cerri, riserve borboniche non più utilizzate, specialmente nella zona attorno al Casone dell’Aresta. Lo stato vegetativo delle faggete è ottimo e risente della presenza di eccellenti suoli bruni forestali, ricchi di humus dolce e profondi; nel sottobosco si apprezzano estesissime colonie di aglio ursino (Allium ursinum L.). Fino al 1955, sugli Alburni era presente un lembo (129 ha) di faggeta conservatasi allo stato seminaturale a causa di contestazione territoriale tra i comuni di Corleto Monforte e S. Rufo (Susmel, 1959). Attualmente, sporadici lembi di bosco non utilizzato si trovano ancora attorno agli inghiottitoi ed alle doline più rocciose. Le rigogliose faggete degli Alburni ospitano pochi nuclei residui d’abete, soprattutto nella porzione orientale del massiccio. Ad ovest della vetta principale, nei pressi del Vuccolo dell’Arena (1.528 m), è presente una pianta isolata d’abete nella faggeta degradata da intensi tagli negli anni ’50; è un esemplare policormico e deperiente, di ridotte dimensioni, già visibile in fotografie risalenti agli anni ’60. Nelle vicinanze qualche altra pianta d’abete si ritrova confusa ai faggi ed all’agrifoglio (Ilex aquifolium L.). Come di consueto, la maggior parte degli esemplari di abete è confinata sul versante nord-orientale del massiccio, in comune di Corleto Monforte. In passato, Susmel studiò questi boschi per la stesura della sua famosa e pregevole opera intitolata “Riordinamento su basi bioecologiche delle faggete di Corleto Monforte” (1959). In tale lavoro Susmel verificava l’esistenza di 881 esemplari d’abete di cui 132 del diametro superiore a 20 cm e localizzava le piante attribuendole alle particelle forestali del piano economico. Successivamente, Iovino e Menguzzato (1994) ne aggiornavano, ma in maniera sommaria, la presenza attuale. Nel corso di sopralluoghi effettuati durante l’inverno 1996-97, si è accertata l’esistenza di 86 esemplari di abete del diametro compreso tra 20 ed 80 cm, situati nelle particelle 17, 24, 34, 58, 64, 65, 69, 78 del Susmel. Rispetto al 1955, epoca del sopralluogo del Susmel, si nota l’evidente diminuzione della consistenza numerica dell’abete e la sua scomparsa da numerose particelle (40, 41, 53, 56, 62, 69, 70, 72, 73, 77, 79). Il popolamento più numeroso si trova nella Costa dei Patrielli (68 piante), nella degradatissima faggeta incendiata e pascolata, sul bordo ed all’interno di doline. Il bosco è edificato da faggio, acero, carpino, pioppo e ornello. L’abete si trova nelle doline e in alcuni tratti di soprassuolo non incendiato. La struttura attuale è il risultato di tagli rasi con riserve, eseguiti nei primi decenni del secolo, mediante teleferiche, seguiti da pascolamento eccessivo. La distribuzione a “quinte” del bosco è la prova inequivocabile di alterazioni progressive che hanno ridotto l’originale bosco misto faggio-abete nelle condizioni oggi osservabili. Infatti, a conferma di ciò, si evidenzia l’esistenza di un piccolo tratto di abetina quasi pura, in un angolo non raggiunto dall’incendio, nel quale si ripropone la struttura tipica delle abetine appenniniche: piante aventi tronco cilindrico poco rastremato, chioma raccolta in alto e rinnovazione marginale molto sviluppata. La statura non oltrepassa i 20 metri; l’età media si aggira introno ai 80-90 anni. Al di fuori di questa area le altre piante sono perlopiù isolate e non riescono a costituire soprassuoli significativi. Da notare la rinnovazione affermata presente all’interno di doline, la quale, protetta da cespugli di prugnolo (Prunus spinosa L.) e rosa (Rosa canina L.), è riuscita a sfuggire all’inesorabile distruzione operata dal bestiame pascolante. Un altro popolamento di abete si trova nella valletta, a valle del Casino Sierro, a quote comprese tra i 1.050 ed i 1.150 metri, con orientazione a nord-ovest. Le piante di abete fanno parte dell’attuale ciclo colturale della faggeta, ma possiedono età non superiore ai 100-120 anni e sono ancora biologicamente valide. Le loro dimensioni sono modeste, non superando i 20 metri di altezza per i 70 cm di diametro. Esemplari sparsi d’abete (6 piante) si ritrovano nella splendida faggeta compresa tra la Serra La Ciavola e Timpone Alto (La Piazzetta), oltre ad un solo esemplare nella località “Acqua dei Tassi”. La rinnovazione è sempre sporadica e difficilmente riesce ad affermarsi all’interno della faggeta. Un esemplare, il migliore per forma e incremento, è situato sotto La Serra dei Lepri, a 1.100 m; è alto 18 m e possiede un diametro di 60 cm. È interessante notare come tutti gli abeti degli Alburni, ad eccezione di quelli della Serra dei Patrielli, siano luogo di ritrovo dei cinghiali, i quali, strofinandosi sulla loro corteccia, finiscono con il danneggiarne il tronco.
Cervati
Nel massiccio del Cervati-Motola l’abete è relativamente presente e diffuso. Certamente la stazione più estesa è quella del M. Motola (1.743 m), già studiata dal De Philippis nel 1952. Il nucleo in questione è situato nel versante settentrionale del monte, compreso tra le quote di 1.000 e 1.450 metri. L’abete è associato a Fagus sylvatica L., Acer neapolitanum, Acer lobelii Ten., Ulmus glabra Huds., Corylus avellana L., Castanea sativa Miller, Fraxinus ornus L., Quercus cerris L., Quercus pubescens Willd., Alnus cordata, Ostrya carpinifolia Scop., Prunus avium L., Ilex aquifolium L. Le formazioni di nocciolo allignano su vecchi terrazzamenti, adibiti un tempo a coltura di cereali e patate. La faggeta è governata interamente ad alto fusto coetaneo, ma nei tratti meno fertili o ai bordi delle radure, la statura ed il portamento delle piante diviene contorto e policormico, a simulazione quasi perfetta di oasi di “ceduo”, all’interno delle fustaie. L’abetina occupa parte del pendio acclive che fascia la parte basale del monte. La consistenza dell’abete è piuttosto bassa, certamente inferiore al periodo del sopralluogo del De Philippis. Il taglio ha interessato tutta la faggeta, eliminando le riserve del ciclo precedente fino all’isoipsa 1.500 ed effettuando un probabile taglio di sementazione nella porzione superiore. Ciò è evidente in quanto è ben osservabile lo “scalino” strutturale tra la faggeta sgomberata e quella soprastante, ancora ricca di faggi vecchi di oltre 100 anni. L’abete non entra minimamente nella faggeta superiore in rinnovazione, se non nei tratti meno fertili e su affioramenti rocciosi, ma si limita a vegetare nella parte inferiore, sgomberata, solamente con poche piante che sono riuscite a “bucare” la volta del faggio. L’abbondanza di salicone ed ontano napoletano indica, altresì, che il taglio è stato molto intenso. Un’altra immagine, presa questa volta dalla vetta occidentale del M. Motola, sempre nel 1958, ci mostra come il taglio di sgombero avesse isolato pressoché completamente le riserve d’abete, predisponendo l’intera associazione alla semplificazione della struttura e della composizione che attualmente vede il faggio nettamente dominante nell’intero bosco misto.
Nella porzione inferiore, laddove il faggio cede il passo a formazioni più termofile, l’abete è relativamente più frequente, anche se molte riserve del suddetto taglio sono in stato di avanzato deperimento, colpite da attacchi di Heterobasidium annosum. Infatti, all’interno di questi nuclei sono presenti ampi vuoti con ingente materiale legnoso in disfacimento. Sui tronchi ancora in piedi dell’abete sono ben visibili i buchi scavati dal picchio nero, specie animale molto interessante e protetta dal Parco Nazionale Cilento-Vallo di Diano. La struttura del bosco è tendenzialmente coetanea, anche se il taglio irregolare che ha interessato il bosco negli anni ’50 e ’60 ha permesso la formazione di strutture abbastanza stratificate, soprattutto nelle aree più rocciose. La rinnovazione dell’abete è diffusa, ma risente pesantemente della semplificazione strutturale che vede la totale assenza di elementi maturi e cadenti. Le dimensioni raggiunte dall’abete sono modeste; le piante più grosse non superano i 25 metri di altezza per 50 cm di diametro e sono tutte biologicamente vecchie. Nel vicino gruppo del Cervati, le condizioni dell’abete sono molto diverse. La specie è presente quasi esclusivamente nella regione di Vallivona, sul versante sud-occidentale del massiccio e, più specificatamente, in località “Donna Annina” e sull’orlo del gigantesco inghiottitoio detto “Affondatore di Vallivona” (La Valva, com. pers., in Rovelli, 1995). Al contrario del Motola, dove l’abete è diffuso con piante di modeste dimensioni, sul Cervati 4 esemplari, su un totale di 10 censiti, sono di notevoli dimensioni. La faggeta è una fustaia già trattata a taglio raso con riserve nel secolo scorso e, successivamente, a tagli successivi uniformi, nella quale i tratti non ancora sgomberati sono concentrati lungo gli orli della conca e nei luoghi più impervi. A giudicare dalle dimensioni raggiunte dalle riserve di faggio ancora presenti e da quelle degli abeti superstiti, il bosco originario doveva possedere una fertilità fuori dal comune e raggiungeva, con molta probabilità, una statura superiore ai 40 metri, di fisionomia simile alla faggeta dei Temponi, situata sul lato opposto del Cervati. Le piante d’abete sono tutte comprese tra le quote di 1.500 e 1.650 metri. Il bosco è edificato per il 99% dal faggio, mentre il restante 1% è composto da salicone, betulla, pioppo tremolo, ontano napoletano, carpino nero, abete. Attualmente la struttura è marcatamente coetanea, anche se, qua e là, si trovano piante monumentali che “vivacizzano” la monotonia strutturale, oppure piccoli nuclei di spessina mai diradata. Ciò che colpisce particolarmente è l’assoluta mancanza di interventi colturali alla faggeta che è sempre eccessivamente densa ed i soggetti sono decisamente troppo filati. Le piante di abete raggiungono i 35 metri di altezza per 1,40 m di diametro. In particolare una pianta (la N°6) è veramente solenne; possiede un’età superiore ai 300 anni e ricorda i giganteschi abeti del Piano Jannace sul Pollino e quelli della Laga. Si tratta di una “riserva borbonica” ed il tronco è completamente cariato. L’esemplare è slanciato, rastremato solo alla base e testimonia, come già detto, la presenza passata di un bosco decisamente migliore di quello attuale. Sul tronco dell’abete N°5 sono ben visibili le tacche inflitte con la scure per saggiare la sua idoneità al taglio (specchiatura).
Gli altri abeti possiedono tutti dimensioni nettamente inferiori. Le piante N°8 e 9 sono in stato di deperimento, ma saltuariamente ancora fruttificano, mentre le N°3 e 4 sono di dimensioni ridotte e presentano la cima tabulare ed una chioma trasparente. La pianta N°6 possiede, al colletto, un taglio infertogli dalla sega negli anni ’70; evidentemente, già destinata al taglio, è stata risparmiata all’ultimo momento. La rinnovazione è presente con poche piantine, aduggiate dalla faggeta, ma ancora sufficientemente vitali per reagire positivamente ad appropriati interventi colturali. Solamente una pianta d’abete, la più giovane tra quelle dominanti (N°7), è riuscita ad affermarsi, svettando al di sopra dei faggi. Purtroppo, la fruttificazione dei vecchi abeti è assai scarsa e irregolare. Altri due esemplari si trovano affacciati sul bordo meridionale dell’Affondatore di Vallivona, a 1.100 metri di altitudine (N°1 e 2): sono due piante di modeste dimensioni, biologicamente vecchie. Sulle pareti della voragine si trovano anche abbarbicate molte piante di tasso (Taxus baccata L.), acero opalo, betulla, ontano napoletano e leccio (Quercus ilex L.). Un ultimo esemplare d’abete (N°10) è stato ritrovato su di un costone del versante orientale del Cervati, non distante dal rifugio omonimo, associato con tasso, faggio, acero di Lobelius, a 1.500 m di altezza ed è in condizioni di vegetazione piuttosto precarie, pur non presentando dimensioni elevate (8 m di altezza per 30 cm di diametro).L’abete segnalato in Rovelli, 1995, sulle rupi dei Temponi, presente fino agli anni ’60, è scomparso. Non sono state rilevate vecchie ceppaie d’abete nell’area del Cervati, sicché, anche in un recente passato, la consistenza della specie non dovette essere di molto superiore all’attuale.
Considerazioni
Come si evince da quanto detto sino ad ora, l’abete è ridotto a vegetare in poche località ben definite. Il nucleo di maggiori dimensioni è situato sul versante settentrionale del M. Motola, mentre nelle altre località, la sua presenza è irrisoria se non irrilevante. Le testimonianze storiche, anche per la regione Campania, ci mostrano un quadro sufficientemente esaustivo circa una diffusione maggiore in passato Rimane qualche dubbio sull’effettiva presenza dell’abete sul M. Taburno, in quanto le notizie pervenuteci da Terracciano, Tenore e Giacobbe sono piuttosto contraddittorie. Purtroppo, non possediamo documenti sull’effettiva partecipazione dell’abete alle cenosi forestali di tutto l’antiappennino campano-pugliese, dove, tuttavia, l’antica antropizzazione del territorio potrebbe aver cancellato qualsiasi ricordo storico sulla sua esistenza. I popolamenti attuali dei monti Picentini sono limitati a 9 piante che, nonostante l’esiguità numerica, potrebbero dare luogo a fenomeni di ridiffusione, se adeguatamente assecondati. La loro giovane età e la partecipazione alle cenosi come esemplari dominanti possono rendere facili interventi colturali appropriati. Sul Matese, l’unico esemplare d’abete è in fase di maturazione e la sua posizione nella faggeta impone un intervento di assistenza colturale, in mancanza del quale la permanenza dell’abete sul Matese sarà inevitabilmente compromessa. Per quanto riguarda il gruppo del Cervati, la consistenza numerica dei gruppi di abete sul Motola è abbastanza rilevante, ma, la mancanza di adeguati interventi colturali in passato ha portato, come al solito, il faggio in netto vantaggio sull’abete. Peraltro, il declino delle attività silvo-pastorali, almeno fino ad ora, non ha assicurato una ripresa dell’abete, il quale, pur presentando sempre un’abbondante rinnovazione, non riesce a contrastare l’incipienza del faggio, che nella zona si trova in ottimo vegetativo. Durante i sopralluoghi effettuati si è avuta l’impressione, osservando l’elevata ridiffusione del tasso e dell’agrifoglio nelle faggete degli Albumi, che, in un passato remoto, la loro maggiore presenza contribuisse a “movimentare” non poco la struttura delle faggeto-abetine, ostacolando la rinnovazione in massa del faggio e permettendo la stratificazione dei soprassuoli, consentendo così anche la partecipazione a tali consorzi all’abete. Che questo sia verosimile lo si percepisce osservando la facilità con cui l’agrifoglio invade la faggeta, al punto da formare un piano dominato che, di fatto, potrebbe originare macchie di bosco di solo agrifoglio dall’elevato potere ombreggiante, con conseguenze esiziali sulla rinnovazione del faggio, ma non sul tasso e sull’abete, dotati il primo di maggiore resistenza alla sciafilia esasperata ed il secondo di un maggior tempo di “attesa” nei confronti del faggio (Susmel, 1980). La longevità del tasso, unitamente alla statura raggiunta, dimostrata dall’imponenza dei tassi delle foreste del Gargano, dei Simbruini e dai colossali tassi-sequoia del chiostro della Basilica di S. Vitale a Ravenna, ci dimostrano come, molto probabilmente, le originarie foreste appenniniche fossero costituite da diverse specie forestali dominanti, tra le quali il tasso e l’agrifoglio, a torto sottostimate, contribuivano ad arricchire la componente floristica forestale e ad ostacolare il totale “infaggiamento” di molti boschi montani appenninici.
Conclusioni
Da tali considerazioni, appare chiaro come sia aleatoria la speranza di coltivazione dell’abete nelle cenosi forestali campane edificate dal faggio, pena il completo insuccesso. Molte esperienze passate e presenti indicano che l’abete non possiede, in tali ambienti, la capacità concorrenziale sufficiente all’affermazione nei confronti di una specie, quale è il faggio, che nei nostri ambienti pedoclimatici espleta la funzione di specie climax, con una velocità evolutiva dei suoi consorzi davvero impensabile altrove. Inoltre, come se ciò non bastasse, la mancanza di una selvicoltura veramente naturalistica, che fino ad ora più che di “formica” ha saputo di “elefante” — e di pratiche colturali mirate alla conservazione della specie, semplici a dirsi ma inattuabili o inattuate ai fatti, faranno sì che l’abete ridurrà progressivamente la sua partecipazione alle faggete, relegandosi in ambienti svantaggiati e ecologicamente inetti al faggio, quali ad esempio, orno ostrieti e querceti termofili, in attesa di una graduale estinzione.
RIASSUNTO
Nella regione Campania l’abete è presente su tutti i principali monti della regione, ma in maniera assai sporadica. Il popolamento più importante dal punto di vista ecologico e selvicolturale è situato sul M. Motola, nella zona del Vallo di Diano. Dalle indagini storiche effettuate da altri autori è emerso, anche in questo caso, una notevole riduzione delle aree di vegetazione della specie nell’ultimo secolo. Nonostante ciò, la vitalità. di alcune abetine induce a pensare in una possibile ripresa della specie, ma solamente nel caso di una selvicoltura naturalistica più attenta alle esigenze delle specie associate al faggio. Infine, l’autore, sulla scorta di osservazioni effettuate nell’intera regione, ipotizza una minore diffusione del faggio, contrastato dal tasso e dall’agrifoglio.
SUMMARY
SILVER FIR (ABIES ALBA MILL IN CAMPANIA
In Campania the silver fir tree is spread on all the main mountains of the region, although in a very sporadic manner. The most important fir population from an ecological and forestal point of view is situated on mount Motola, in Vallo di Diano. From the historical investigations realized by other authors, has resulted, also in this case, a remarkable reduction, in the last century, of the areas where the fir grows. Neverthless the vitality of some fir forests induces to think about a possible restart of the species, but only in the case of a naturalistic forestry more careful to the needs of the species associated to the beech. In conclusion, the author, on the ground of the observations realized in the whole region, makes some hypothesis about the past minor beech diffusion contrasted by yew and holly.
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