La foresta di Derborence

 

Dopo millenni d’utilizzo del territo­rio e delle sue risorse, la percentuale relittuale di foreste vergini in Europa è insignificante. L’utilizzo che ne è stato fatto, diretto per mezzo di tagli e disbo­scamenti, indiretto mediante il pascolo e la caccia, ha ridotto la superficie delle formazioni forestali vergini a modestis­simi appezzamenti, generalmente situati in luoghi poco accessibili all’uomo (Lei­bundgut H., 1993; Rovelli, 1995, 1996; Susmel L., 1980). Il presente lavoro si propone l’obiettivo di illustrare le prin­cipali caratteristiche e peculiarità di una di queste ultime formazioni forestali europee: Derborence.

1. Introduzione

Nell’Europa occidentale la superficie ancora occupata da foreste allo stato naturale è ridotta ai minimi termini. Solamente piccoli lembi sopravvivono ancora, fortunatamente protetti in par­chi o riserve, sulle principali catene montuose. Scomparsi sono al contrario i boschi naturali nelle aree pianeggianti, di più facile accesso ed utilizzo per fini agricoli e bonificati o convertiti a campi da millenni. Leggermente diversa è la situazione nell’Europa dell’Est e nella Penisola Balcanica soprattutto, dove un minor progresso economico e tecnologico ha permesso, anche se sporadicamente, la sopravvivenza allo stato naturale o quasi di sparuti boschi di montagna, gene­ralmente insediati in luoghi sfavorevoli od inutili alla produzione; molti studiosi li hanno studiato passato, in condizioni socioeconomiche più favorevoli dell’at­tuale (Leibundgut, 1956; Susmel, 1956, 1980). La stragrande maggioranza delle fo­reste naturali residue è localizzata nei paesi dell’ex Jugoslavia (Bosnia, Mon­tenegro, Croazia), in Romania (Pietra Arsa), mentre minore rilievo hanno i pochi boschi naturali della Grecia (Pindo, Macedonia, Tracia) e della Bul­garia (Rodopi).

Nell’Europa occidentale e centrale alcuni piccoli appezzamenti di foresta naturale o seminaturale si trovano an­cora sulle montagne dei Pirenei, in Cor­sica (Rovelli, 1995), in Svizzera ed in Germania. Per quanto riguarda l’Italia, le poche formazioni naturali sopravvis­sute sono concentrate sull’Appennino: la prima e la più importante è certamen­te Sasso Fratino, ma in questo caso possiamo parlare di seminaturalità poi­ché almeno un’utilizzazione forestale c’è stata (Hofmann, 1991; Massei, 1981; Padula, 1982); assolutamente naturali sono i cinque ettari di faggeta della Camo­sciara, nel Parco Nazionale d’Abruzzo (Clauser, 1954), dove sopravvivono anche residui di vecchie fustaie di protezione non più utilizzate da anche un secolo. Formazioni seminatu­rali sono anche le leccete del Supramon­te d’Orgosolo, risparmiate dalle utiliz­zazioni forestali ma martoriate da secoli di pascolo suino incontrollato (Susmel, 1956). Stesso discorso per le vicine abe­tine e leccete della Corsica (Rovelli, 1995), dove il pascolo ha segnato la sorte di questi bellissimi boschi rispar­miati dalle scuri. Sull’arco alpino italiano non troviamo traccia di boschi natu­rali eccezion fatta, forse, per pochi effimeri lembi arroccati sulle granitiche vette delle Alpi Marittime (Rovelli, 1997). Nella vicina Svizzera esistono tre for­mazioni forestali allo stato naturale: Derborence nel Vallese (25 ha), Bodme­ren (70 ha) nel Cantone di Schwyz ed il bosco di Scatlè (9 ha) nel Grigioni, tutte rigorosamente protette. La foresta di Derborence è gestita congiuntamente dall’Ente Federale per le Foreste e la Federazione Pro Natura di Basilea, che la possiede dal lontano 1959, anno in cui venne miracolosamente salvata dai tagli proprio all’ultimo momento ed inserita in un regime di protezione totale; in conseguenza di tale gestione l’accesso alla foresta è limitato ai sentieri già esistenti. Gli unici interventi attuati da allora sono stati il tagliare i tronchi colossali caduti sul sentiero nel 1990 in seguito all’uragano, ma solo per lo stretto indispensabile a garantire un minimo di passaggio lungo il sentiero che ne costeggia il margine settentriona­le e comunque lasciando i tronchi sui letti di caduta.

2. Materiali e metodi

Nello studiare la foresta di Derbo­rence si è ritenuto necessario esaminare attentamente l’intero bacino idrografico della Lyzerne, con lo scopo di posse­dere una visione sinottica dell’intero ambiente. Su tale stregua sono state effettuate aree di saggio anche nei com­prensori boschivi adiacenti, in numero di tre, sulla base delle loro affinità. Nella foresta naturale si sono rilevate quattro aree di saggio della misura di 60 x 10 m ed un’area è stata dedicata solamente allo studio della rinnovazio­ne naturale. Inoltre, si sono ricercate fonti storiche sulla foresta, nonché carte antiche che documentassero lo stato di fatto dell’ambiente anteriormente alla catastrofe del 1719, di cui si parlerà ampiamente in seguito.

3. Caratteri dell’ambiente

La valle di Derborence è una dira­mazione laterale della Valle del Rodano ed è situata nel centro del Cantone del Vallese, poco distante dal capoluogo Sion. La sua vicinanza alla valle princi­pale non deve indurre in fraintendimen­ti poiché, fino al 1952, questa valle non era raggiungibile con mezzi motorizzati e l’accesso era limitato ad una mulattie­ra, chiusa durante la stagione invernale e perfino all’inizio della primavera per pericolo di frane e valanghe. Infatti, la valle della Lyzerne, perlo­meno nel suo tratto medio-basso, è mol­to angusta e caratterizzata da una ripi­dezza dei versanti dei monti che la dominano veramente eccezionale. Deci­ne di canaloni percorsi regolarmente da valanghe fanno sì che durante l’inverno e fino ad aprile inoltrato la mulattiera, ma anche la strada carrabile, siano totalmente ostruite e ricolme di conoidi di neve avvalangata e frane di fango e terra. L’interesse per questa valle, fino agli anni ’50, era dettato solamente dalla presenza di numerosi alpeggi creati per i pingui pascoli estivi, particolarmente diffusi nei morbidi pendii marnoso-are­nacei delle pendici meno acclivi. Nel 1952 fu aperta la strada a car­reggiata ridotta, attualmente in uso, per permettere agli automezzi di raggiunge­re la piana di Derborence per i lavori di costruzione di una piccola diga ed oltre 20 km di gallerie in roccia necessari ad approvvigionare d’acqua la centrale elettrica sottostante.

La natura geologica del bacino della Lyzerne è piuttosto variegata, ma è costituita essenzialmente di pile di calcari alternate a strati d’arenaria; da questo ne deriva l’estrema instabilità di questi versanti, periodicamente soggetti a fra­ne di vaste proporzioni. La maggiore di queste ebbe luogo nel 1719, quando dalla parete meridio­nale della montagna “Les Diablerets” (3.209 m) si staccarono immani masse di roccia che rotolarono a valle travolgen­do alpeggi, uomini e mandrie. Una seconda frana si ebbe trent’anni più tardi, nel 1749, quando una seconda gigantesca massa di roccia precipitò a valle, questa volta ostruendo il corso della Derbonne (affluente della Lyzer­ne) e causando la formazione del Lago di Derborence, piccolo e suggestivo specchio d’acqua in fase di interramen­to, posto immediatamente sotto la fore­sta vergine. È stato calcolato che il volume di roccia depositatosi nella valle ammonta a circa 50 milioni di mc ed ha riempito totalmente il fondo valle, alzandone il livello di circa 100 m. Successivamente a tali eventi si verificarono altre frane di una certa importanza, l’ultima delle quali si ebbe nel 1944. In conseguenza della pericolosità della valle, Derborence fu abbandonata per circa due secoli, in altre parole fino all’apertura della strada carrabile nel 1952. La posizione del bacino della Lyzer­ne fa sì che il clima sia di carattere suboceanico, meno arido dell’adiacente Valle del Rodano che risente meno delle correnti umide occidentali. A tale pro­posito si pensi che la piovosità annua a Sion ammonta soli 592 mm, contro i 1.200 mm di Derborence. Se a Sion il clima presenta tendenze ad una certa continentalità, a Derborence la distri­buzione delle precipitazioni è più rego­lare con un minimo invernale poco pronunciato ed una massimo estivo relativo. Forte la ventosità, prevalente­mente occidentale, che determina fre­quenti uragani con schianti e crolli nelle foreste; famoso quello del febbraio del 1990 che ha determinato la caduta di una buona metà degli alberi della fore­sta vergine ed ingenti danni nei boschi adiacenti.

3.1. La vegetazione forestale del bacino della Lyzerne

Nella parte bassa della Valle del Rodano la vegetazione forestale domi­nante è data dalla faggeta, pura o asso­ciata ad abete (Abies alba Mill.), peccio (Picea abies Karst.) e nei settori meno freschi anche con larice (Larix decidua Mill.) e pino silvestre (Pinus sylvestris L.). Inoltrandosi nella media ed alta Valle del Rodano, le condizioni climatiche virano verso una maggiore conti­nentalità e con essa la faggeta progressi­vamente sfuma in querceti termo-xero­fili dominati dalla roverella (Quercus pubescens Willd.) e dall’acero fico (Acer opalus). Quasi totalmente scomparsi dalla bassa e media Valle del Rodano sono i boschi planiziali che un tempo occupavano tutto il fondo valle. Proprio per la sua posizione inter­media, la media Valle del Rodano pre­senta caratteristiche vegetazionali che la accomunano con entrambi i settori cli­matici appena evidenziati.

Come già detto, nel piano submon­tano (500-800 m) sono ampiamente diffusi popolamenti di latifoglie eliofile dominate dalla roverella e dall’acero fico; che si tratti di uno stadio di degra­dazione di originarie associazioni di boschi misti mesofili è difficile a dirsi, comunque sia l’estensione di tali forma­zioni è alquanto ridotta in conseguenza della massiccia presenza di coltivazioni di uva da vino. Nel sovrastante piano montano (800-1.400 m) troviamo formazioni di pino silvestre (Pinus sylvestris L.) nelle esposizioni meridionali, spesso inquina­te da discese di peccio (Picea abies Karst.) e, talvolta, persino di larice (Larix decidua Mill.). Il basso corso della Lyzerne, possiede l’ultimo avam­posto interno del faggio della Valle del Rodano. Questo occupa tutto il versan­te destro idrografico (occidentale) della valle e parte di quello sinistro (orienta­le), associato sempre all’abete in fagge­ti-abieteti e talvolta anche nelle sue fasi regressive al frassino (Fraxinus excelsior L.), al peccio, al larice e persino al pino silvestre.

Le faggete (Cardamine pentaphyl­lae-Fagetum Mayer e Hofmann) si pre­sentano governate a ceduo ed a fustaia. I cedui sono quasi sempre puri e sola­mente sporadici esemplari aduggiati e senza avvenire di peccio ed abete movimentano la struttura. I cedui sono tutti in fase d’accentuato invecchiamen­to e presentano età superiori ai 35-40 anni. Non si riscontra la presenza d’aie carbonili.

Le fustaie sono tutte disetanee e sempre miste con abete, peccio subor­dinato e larice accessorio. La forma delle piante è ottima e il tronco è sempre poco rastremato; la statura raggiunge i 35 m per l’abete ed i 30 m per il fag­gio. L’età media di questi popolamenti misti è superiore ai 100 anni. Il tratta­mento usato è quello del taglio saltuario con un periodo di curazione superiore ai venti anni, ma in alcune ristretto zone si osservano anche esiti di tagli a raso effettuati, molto probabilmente, negli anni ’50; in questo particolare caso si ha la formazione della classica fustaia biplana con l’abete rappresentato da poche piante superdominanti un “ma­re” di faggi, senza alcuna rinnovazione della conifera. La faggeta occupa pendii calcarei molto acclivi e possiede la tipica florula di accompagno simile nei contenuti alle migliori faggete eutrofiche alpine ed appenniniche: la stellina odorosa (Ga­lium odoratum), il mughetto (Convalla­ria majalis), l’uva di volpe (Paris quadri­folia L.), la scilla (Scilla bifolia L.), la Prenanthes purpurea, l’epatica (Hepati­ca nobilis Mill.), la fragola (Fragaria vesca L.), in associazioni già conosciute e ben documentate. Nelle strisce di bosco percorse da valanghe o frane s’instaura una vegetazione chiusa pio­niera composta di ontano verde (Alnus viridis (Chaix) D.C.), nocciolo (Corylus avellana L.), frassino, acero di monte (Acer pseudoplatanus L.), betulla (Betu­la pendula Roth.), sorbo degli uccellato­ri (Sorbus aucuparia L.), salice (Salii appendiculata Vill.) e faggio nel sottobo­sco. Nello strato erbaceo permane la florula della faggeta, a testimonianza di ecotoni regrediti nella forma ma inva­riati nel contenuto. Le formazioni di faggio degradate da tagli eccessivi si arricchiscono di presenze steppiche pro­venienti dalle vicine pinete, quali crespi­no (Berberis vulgaris L.), pero corvino (Amelanchier ovalis Medicus), cotogna­stro (Cotoneaster tomentosa Lindi.), eri­ca (Erica herbacea L.).

Salendo di quota la faggeta sfuma in un abieteto (Oxalido-Abietetum Mayer e Hoffmann), dapprima degradato da valanghe poi serrato in compagini miste con peccio subordinato, farinaccio ac­cessorio (Sorbus aria Krantz.) e faggio nel sottobosco; la presenza del peccio è maggiore laddove i tagli o eventi catastrofici hanno aperto radure troppo ampie perché l’abete possa rinnovarsi ed in tali casi partecipa anche il larice, preparando la strada al reingresso del­l’abete.

Sul versante sinistro idrografico del­la valle la faggeta si ferma più in basso, lasciando ampio spazio alle conifere nella colonizzazione delle rupi calcaree, povere di suolo e continuamente in assestamento. Questo è anche il versan­te dove passa la carrozzabile di accesso a Derborence, che segue immaginarie sinuosità aperte tra le rocce strapiom­banti. Il soprassuolo è costituito da popolamenti misti d’abete, peccio, pino silvestre ed in nicchie relativamente sta­bili da faggio di mediocre portamento. Tutto questo versante è molto accli­ve ed interrotto da salti di roccia di più di cento metri d’altezza. Le dimensioni raggiunte dagli alberi sono modeste, non oltrepassando i 15-20 metri. L’abe­te tende ad invadere le pinete, ma la senescenza precoce cui va incontro gli precludono un successo duraturo. Il peccio rimane più che sporadico ed il suo portamento è pessimo. Stesso di­scorso per il larice, cui i mobili versanti calcarei riservano un ambiente troppo arido per le sue esigenze idriche.

Oltre i 1.700 metri anche l’abieteto lascia il posto alla pecceta pura (Veroni­co urticifoliae-Piceetum Ellenb. E) nella quale sono sempre presenti il larice, il sorbo degli uccellatori e l’onta­no verde. La densità di queste formazio­ni non è sempre colma, anche in virtù del ciclone del 1990. Laddove le chiarie non oltrepassano la superficie di 80-100 mq la rinnovazione è prevalentemente di peccio con risalite occasionali di abete; oltre tali dimensioni il peccio si associa sempre al larice, con presenza anche di pino mugo (Pinus mugo Turra) e dei pini uncinato (Pinus montana Ra­mond) e silvestre. Ai margini superiori il larice (LariciPinetum cembrae Ellenb.) prende la dominanza assoluta su tutte le altre componenti, associandosi sporadi­camente al cirmolo (Pinus cembra L.), eccezionalmente presente in quest’area. Nella parte più interna ed orientale della valle compaiono associazioni pioniere di peccio, larice, pino mugo, betulla, ontano verde, sorbo degli uccellatori, farinaccio, continuamente ringiovanite da valanghe che precipitano dai costoni soprastanti, accompagnate nelle radure da estesi e vigorosi popolamenti d’ori­gano (Origanum vulgare L.) e lantana (Viburnum lantana L.).

Una considerazione a parte va fatta a riguardo della foresta vergine di Der­borence la quale, seppure assimilabile all’associazione sopracitata, se ne diffe­renzia per alcuni caratteri di non poca importanza. Infatti, se da un lato la fitosociologia ha studiato pressoché interamente la vegetazione naturale e sinantropica del­l’intero continente europeo, è altrettan­to corrispondente a verità che tali studi hanno riguardato formazioni alterate e/o secondarie, che si discostano più meno dalla condizione climacica. La deviazione e la deriva rispetto alla con­dizione climax è tanto più forte quanto più tale formazione è stata utilizzata; ed infatti il piccolo lembo di foresta prima­ria di Derborence si discosta nettamente dalle altre formazioni forestali analoghe addirittura adiacenti a questa, in misura maggiore nei riguardi di quelle più alterate. A tale scopo lo studio approfondito delle caratteristiche fito­sociologiche di questo bosco potrebbe­ro rappresentare un caposaldo nella letteratura di questa importante branca della botanica o quantomeno un riferi­mento a cui afferire nella valutazione delle diverse fasi di deriva dai parametri climacici delle foreste temperate euro­pee.

3.2. Le grandi frane del passato

La prima grande frana avvenuta nel 1719 provocò la distruzione di buona parte della foresta che allignava nella valle della Derbonne, seppellendo per un centinaio di metri di spessore anche tutta la porzione inferiore dell’abieteto e, molto probabilmente, delle ultime digitazioni della faggeta della Lyzerne. L’ingente massa rocciosa provocò an­che indirettamente l’atterramento di una notevole quantità di alberi, per mezzo dello spostamento d’aria che precedette la frana vera e propria.

3.3. La vegetazione forestale della frana del 1719-1749

Particolarmente significativa è la co­pertura arborea ed arbustiva dell’imma­ne conoide detritica che ha ricoperto la valle di una spessa coltre di materiale di frana. Dato l’abbandono di Derborence seguito alla frana del 1719, la natura ha avuto tutto il tempo necessario per tentare di cicatrizzare la grande ferita apertasi nell’ambiente in seguito agli eventi calamitosi. Oggi, a distanza di 280 anni dal primo tragico evento, la foresta è riusci­ta a riprendere possesso dei luoghi sot­trattigli, anche se con modalità diversifi­cate in base alle condizioni pedologiche dell’area. Questo bosco pioniero non è mai stato sottoposto ad utilizzazione né a pascolo in quanto sprovveduto di erbe appetibili agli armenti ed inetto a fornire qualsiasi assortimento legno­so. La prima specie forestale ad essersi insediata è stato il pino silvestre, di cui ancora oggi possiamo ammirarne i vec­chi e contorti esemplari che per primi hanno aperto la via alla ricolonizzazio­ne del sito. Le dimensioni raggiunte da questi “vecchioni” sono di 8-10 m di altezza per 70 cm di diametro, ad oltre 200 anni di età. Successivamente è sopraggiunto il pino uncinato, proveniente dalle alte cenge rocciose che dominano tutta la vallata, associato al mugo ed ai primi pecci, che si sono insediati sulla frana a partire dagli inizi del XIX secolo. Naturalmente le dimensioni maggiori raggiunte da questi alberi si trovano nei pressi dei corsi d’acqua che intaccano la grande frana e laddove la granulometria risulta essere più fine; qui gli alberi riescono a raggiungere i 10 m di altezza ed un portamento almeno discreto; al­trove l’altezza media non oltrepassa i 6-7 m, con getti annuali non superiori al centimetro per il peccio. La pedoge­nesi non è ancora riuscita a generare un suolo stratificato e tutte le piante soffro­no vistosamente della presenza di sac­che d’aria sotterranee che accentuano lo stress idrico. In talune zone è presente uno strato di limo argilloso che offre la possibilità d’occasionali ristagni d’ac­qua con formazioni di piccoli specchi d’acqua (Le petit Lac), ma il panorama è quello di un’isola accentuatamente xerica. Complessivamente possiamo af­fermare di trovarci di fronte ad una formazione di pino silvestre mesoxero­morfa (Onobrychidi-Pinetum sylvestris Br.-Bl. et al.) e ciò ci è ampiamente confermato dal sottobosco a pero corvi­no, cotognastro, erica (Erica herbacea L.), maggiociondolo (Laburnum alpi­num (Mill.) Bercht. & J. Prest.) ed un diffusissimo tappeto di uva ursina (Ar­ctostaphylos uva-ursi (L.) Spreng). Para­dossalmente la betulla non è molto diffusa, forse in virtù dell’ambiente mol­to xerico e, laddove presente, non riesce a raggiungere forma e dimensioni di­screte. Nelle zone più umide compare il mirtillo (Vaccinium myrtillus L.), in evi­dente espansione e f capolino qualche timido ingresso di larice ed abete, ma sempre con forme pessime e dimensioni contenute e “pittoresche”. La diffusione del larice e dell’abete è nettamente più abbondante attorno al Lago di Derbo­rence e nelle aree pianeggianti, in altre parole dove c’è stato un maggiore accu­mulo di limo e sostanza organica; in questo caso compaiono anche altre er­bacee sintomatiche d’ambienti più ric­chi, quali la scarpetta di Venere (Cypri­pedium calceolus L.), la piroletta comu­ne (Pyrola minor L.), la speronella (Del­phinium elatum L.) e l’aconito (Aconi­tum napellus L.). Al margine di contatto tra la foresta naturale e la grande formazione pionie­ra è presente una sottile striscia di bosco dal carattere intermedio (pecceta etero­topica) poiché vi è un certo accumulo di suolo, verosimilmente franato dai pen­dii sovrastanti, che ha permesso la cre­scita di un soprassuolo di discrete di­mensioni, costituito di peccio con larice accessorio.

4. La foresta vergine

4.1. Accesso

La foresta vergine di Derborence è estesa per 25 ha nella media Valle della Lyzerne, alle propaggini setten­trionali del Mont à Cavouère (2.594 m), tra le quote di 1.800 e 1.400 metri, ma si possono considerare naturali anche diversi tratti di bosco adiacenti o si­tuati sul versante opposto delle gole della Lyzerne. La foresta è esposta regolarmente a nord nord-ovest e pos­siede una pendenza media dell’80%, con tratti di parete rocciosa strapiom­bante che dividono il bosco in tre settori specifici e fisionomicamente di­versificati. La parte centrale della foresta è at­traversata da un erto sentiero, parzial­mente scavato nella roccia, che serviva a portare gli armenti ai pascoli dell’Alp del Veruet (1855 m); attualmente rima­ne di dimensioni significative il solo tracciato ricavato nella roccia (1-2 m di carreggiata), mentre il tratto nel bosco è ridotto ad un’esile traccia.

A causa dell’ingente massa d’alberi caduti, spesso di dimensioni colossali, il transito nel bosco è diventato assai arduo e non scevro da pericoli, accen­tuati dall’estrema acclività di molti trat­ti della foresta. Oltre ad essere suddivisa in senso verticale, la foresta si presenta costituita in tre settori anche in senso trasver­sale a causa della presenza di due canaloni originatisi in seguito all’impat­to della grande frana sul versante del monte. Al contrario, è veramente facile costeggiare la foresta usufruendo della carrabile che raggiunge il Lago di Derborence e del comodo sentiero che lambisce il margine inferiore del bo­sco

Tab. 1 – Ripartizione percentuale media di diffusione delle principali specie edificatrici.

Orizzonte forestale

Abies alba

Picea  abies

Larix decidua

Pinus Montana (*)

Abieteto

75%

25%

Spor.

——

Piceo Abieteto

60%

40%

Spor.

——

Pecceta subalpina

Spor.

65%

30%

——

Lariceto

——

15%

80%

5%

(*) Il pino uncinato è diffuso soprattutto nelle aree rocciose ed in ecotoni eminentemente rupestri o degradati.

 4.2. Composizione

Contrariamente a quanto si possa pensare in prima istanza, la composi­zione di una foresta vergine tempera­to-montana non è più ricca di specie arboree di una foresta coltivata.L’accesa concorrenza tra le specie forestali attiva una selezione alla quale possono partecipare solamente poche specie che rispondono ai seguenti re­quisiti: velocità d’accrescimento, fruga­lità, facilità di disseminazione, tolle­ranza dell’aduggiamento e della con­correnza laterale. Fatte queste preines­se appare ovvio che nel nostro caso specifico le uniche specie suscettibili di avere successo nell’occupare questo ecotono sono l’abete ed il peccio e che tutte le altre vengono relegate a fasi di pionierismo del tutto transitorie, a me­no che in taluni ambienti l’evoluzione verso un consorzio climacico resti im­pedito da fattori biotici od abiotici limitanti. Questa situazione si verifi­ca generalmente nelle grandi chiarie aperte da eventi catastrofici (valan­ghe, vento, ecc.), al margine confinante con ambienti rupestri, tratti con suolo inondato (torrenti, torbiere, ecc.) od all’opposto fisiologicamente arido (su­perficialità del suolo, affioramenti roc­ciosi, ecc.).Nella foresta di Derborence queste tipologie sono tutte presenti, con inten­sità variabile e con dinamiche differen­ziate.La foresta è composta, in ordine decrescente di presenza, da: Abies alba Mill. Larix decidua Mill., Picea abies Karst, Sorbus aucuparia, Pinus mugo Turra, Pinus montana Ramond, Acer pseudoplatanus L., Betula pendula Roth, Fagus sylvatica L., Pinus cembra L.. Del tutto trascurabile è la presenza del cirmolo, del sorbo degli uccellatori e degli arbusti pionieri.La ripartizione altimetrica è la se­guente:

  • Abieteto con peccio subordinato (1.400-1.600 m)
  • Piceo-Abieteto (1.600-1.700 m)
  • Pecceta subalpina (1.700-1.850 m)
  • Lariceto (1.850-2.100 m)
  • Cembreta (2.100-2.300- frammenta­rio)

Nelle fasce percorse periodicamen­te da valanghe e frane la vegetazione pioniera è dominata largamente dal­l’ontano verde ( > 80%), ma si nota un’incipiente tendenza all’evoluzione verso una compagine più evoluta con larice in successione verso formazioni miste di peccio ed abete.Il sottobosco varia in funzione del­la profondità del suolo, della pendenz dell’altitudine. Nella parte basale delle foresta, nel­l’abieteto, troviamo un sottobosco cli­macico accomunabile a quello delle sottostanti faggete eutrofiche, anch’es­se ospitate su fertili suoli mediamente profondi (0,5-1 m) ma più povero in specie mesoterme; largamente diffusa è l’Adenostyles alliariae (Gouan) Kern, nelle radure la fragola ed i lamponi, l’uva di volpe; mancano il Galium spp., ma compaiono massicciamente il ca­prifoglio nero (Lonicera nigra L.) ed il sambuco rosso (Sambucus racemosa L.); sporadica la presenza del Sorbus chamaemespilus (L.) Cr.Oltre i 1.700 m, nel lariceto, fa la sua presenza il rododendro (Rhododen­ron ferrugineum L.), abbondante nelle radure e nelle aree più illuminate. No­nostante il lariceto sia da considerarsi puro, è comunque frequente la presen­za di peccio ed abete nel sottobosco e nel piano dominato; l’abete presenta inequivocabili segni di danneggiamen­to ad opera di ungulati.La foresta s’interrompe oltre il cri­nale per cedere il posto a pingui pascoli di altitudine (Veruet). Il limite superio­re del bosco si trova a 2.120 m, ma tale limite non esprime appieno le poten­zialità della foresta la quale, in assenza di disturbo antropico, si attesterebbe su livelli superiori.

4.3. Struttura

L’immaginario collettivo idealizza la foresta vergine come un groviglio di piante ammassate l’una sull’altra nella quale è estremamente difficile muover­si senza l’ausilio di macete ed attrezzi vari. Questo è dato dai media, che hanno sempre diffuso immagini di fo­reste pluviali, certamente intricate, ma non corrispondenti alle nostre realtà temperate.Alle nostre latitudini, la disponibili­tà idrica e l’andamento termico, non permettono lo sviluppo di piante epifi­te o emiparassite, se non nel ristretto caso di felci e poche altre, e le stesse lianose sono ristrette al genere Clema­tis, pur molto diffuso nel piano basale e collinare.Quindi, al contrario delle numerose attese, la struttura delle foreste vergini temperato-montane non rispecchia mi­nimamente quelli che sono i paradigmi validi per le foreste equatoriali. Ecce­zion fatta per la fase di spessina e no­velleto, peraltro anche queste struttu­ralmente e dinamicamente diverse da quanto avviene all’Equatore, nessuna fase di queste foreste vergini ci ricon­duce all’intrico della foresta vergine così come vuole la tradizione letteraria.Per questi motivi, percorrere l’in­terno di una foresta vergine oro-tempe­rata non è un’impresa ardua, adatta solamente agli esploratori amazzonici, ma è spesso molto più accessibile di molte foreste coltivate o di inaccessibili e quanto mai ostici cedui mediterranei.Come tutte le formazioni naturali, anche la foresta di Derborence possie­de una struttura complessivamente di­setanea. In questa suddivisione generi­ca compaiono tutti i tipi possibili di fisionomia, eccezion fatta per le spessi-ne e le perticaie, assenti le prime e scar­samente rappresentate le seconde.La piccola superficie del bosco, ap­pena 25 ha, evidentemente non consen­te la coesistenza di tutte le fisionomie, anche perché la maggior parte degli alberi oggi presenti è nata dopo l’even­to franoso del 1719 e subordinatamen­te del 1749 e, per tale motivo, non possiede età superiori a 250 anni.Dall’osservazione della tabella 2 si evince che i parametri potrebbero esse­re facilmente riferiti a boschi coltivati, di struttura disetanea, ma quello che “fa la differenza” è il diverso grado di aggregazione delle piante, ben visibile nelle illustrazioni allegate.

Tab. 2 – Risultati di alcuni rilievi dendrometrici, riferiti all’ettaro. L’altezza, la quota e la statura sono espressi in metri; il diametro in centimetri; il volume in metri cubi.

Area di saggio

Quota

Esposizione

N.piante

Altezza media

Statura

Diametro medio

Volume

1

1420

NE

625

26

35,8

57,8

627

2

1450

N

483

28,6

38,2

62

805

La distribuzione delle piante è di tipo aggregato-casuale, indipendente dalla specie e dalle dimensioni raggiun­te a maturità. Ma vediamo di esaminare le diverse fasi evolutive del bosco:

4.3.1. Spessina

Gli unici esempi di spessina, quasi perticaia, si possono rilevare esclusiva­mente nelle sottili strisce marginali che delimitano il bosco dai canaloni di valanga. Si tratta di consorzi chiusi e molto densi, nei quali l’ontano costi­tuisce lo stadio iniziale di una succes­sione che dovrebbe portare verso una fase climacica simile a quella già esi­stente nel bosco adiacente, ma tale stadio non si raggiunge in quanto le valanghe periodiche annullano la pro­gressione. Dall’intrico dei rami emer­gono spesso larici e pecci, mentre l’abe­te se ne rimane confinato lungo i bordi più aperti del consorzio.

4.3.2. Perticaia

La sua presenza è limitata ad una porzione centrale di bosco, racchiusa tra due canaloni di valanga.La struttura si è verosimilmente originata da un evento catastrofico che ha creato i presupposti per l’ingresso del larice e di latifoglie pioniere nel contesto forestale (sambuco, ontano, sorbo). La densità è bassa ma lo stato vegetativo è ottimo ed elevati sono gli incrementi longitudinali delle piante di abete e larice; in questo settore si è ri­scontrata la presenza dell’unica pianta di faggio riscontrata nella foresta natu­rale.Le piante più sviluppate raggiungo­no i 15/18 metri di altezza per 30 cm di diametro.Non è stato possibile effettuare ri­lievi dendrometrici data l’estrema diffi­coltà di accesso dovuta all’intrico delle latifoglie pioniere.4.3.3. Fustaia adultaÈ situata ai margini del bosco, so­prattutto quello settentrionale e quello orientale.La struttura in apparenza è coeta­nea e la distribuzione è sempre di tipo aggregato casuale; l’abete raggiunge dimensioni maggiori del peccio, con altezze superiori ai 30 metri e diametri dell’ordine di 50-60 cm. Assente il lari­ce. Rare sono le piante sottoposte o dominate e la forma è slanciata e po­co rastremata. Completamente assente la rinnovazione, eccezion fatta per quella concentrata sui rari tronchi in disfacimento.Scarsi i residui di legname in disfa­cimento oltre quelli accumulatisi in oc­casione dell’uragano del 1990.

4.3.4. Fustaia matura

Occupa la maggior superficie della foresta ed è la struttura più imponente ed affascinante di Derborence. La for­mazione è chiusa e presenta una strut­tura “coetaneizzata” (in senso struttu­rale) che offre al visitatore uno spetta­colo difficilmente riscontrabile altro­ve. Numerosi abeti e pecci sono ap­pressati l’uno all’altro in un intrico di rami e tronchi. Nel piano dominato si incontrano solamente abeti aduggiati ma non compromessi, che attendono l’apertura di qualche gap, ovvero la caduta di qualche esemplare monu­mentale, per inserirsi prontamente nel piano dominante; è questa una delle ragioni per cui l’abete riesce a sop­piantare facilmente il peccio in am­bienti suboceanici, anche laddove quest’ultimo possiede un rigoglio dav­vero eccezionale.Le dimensioni raggiunte dagli albe­ri sono ragguardevoli: non sono rari abeti di 80-90 cm alti più di 35 metri, così come pecci di 70-80 cm di diame­tro sono spesso aggrovigliati con gli abeti.È evidente che molti alberi sono cresciuti su tronchi in disfacimento, poiché presentano allineamenti facil­mente inquadrabili in letti di caduta di tronchi oramai scomparsi.

4.3.5. Fustaia cadente

È questa la fase fenologica che più di tutte le altre ha risentito degli effetti dell’uragano. Infatti, molti sono i vuoti aperti nel bosco, anche di notevoli di­mensioni ( > 6.000 mq). All’interno dei vuoti si sono velocemente insediate for­mazioni pioniere di sambuco, sorbo, caprifoglio che nelle aree meno dense hanno lasciato lo spazio sufficiente ad una timida rinnovazione delle conifere arboree (vedi tabella in “Rinnovazio­ne”).La struttura prevalente è cronologi­camente disetanea, ma il profilo delle chiome presenta un evidente appiatti­mento su valori di statura molto elevati, generalmente di 35/38 metri. Le piante più grandi superano i 140 cm di diame­tro per 40 m di altezza e sono tutte in buoni condizioni vegetative. L’età sti­mata per i colossi arborei si aggira sui 300-400 anni, ma l’età media del popo­lamento è di molto inferiore, non oltre i 250-300 anni.La densità nei tratti ancora in piedi è colma e non è presente alcun segno di rinnovazione. Le piante morte in piedi e crollate o in pieno disfacimento sono abbastanza numerose e sui tronchi sono ben evidenti i segni dei picchi; talvolta i tronchi sono letteralmente crivellati dall’uccello, anche su piante ancora vive.In questa fase si riscontra anche l’esistenza di piante di notevoli dimen­sioni di peccio e larice, ma quest’ultimo solamente nelle porzioni più elevate del bosco.La distribuzione degli alberi all’in­terno dei settori maturi e cadenti è del tutto casuale e non rispecchia alcuna apparente logica; si incontrano gruppi di 2-4 abeti e pecci colossali distanti l’uno dall’altro non più di 2-3 metri, ed altri costituiti da esemplari singoli net­tamente superdominanti sugli altri. La cima degli abeti è raramente coronata, anche ad età avanzata; solamente nei soggetti in avanzato deperimento si os­serva la formazione della “tavola”, me­glio conosciuta come “nido di cicogna”.La forma delle piante è sempre slan­ciata, ma la chioma non è inserita in alto così come si osserva nelle foreste coeta­nee o coltivate in genere; di solito si ha 1/3 dell’altezza del fusto libero dalla chioma.

4.3.6. Rinnovazione

Tab. 3 – Area di saggio 6 x 3,5 metri. Il valore esprime la quantità di piantine presenti entro l’area

Abies alba

Picea abies

Larix decidua

Sorbus aucuparia

Acer pseudoplat.

20

6

8

50

1

Nell’area di saggio (Tab.3) le piantine possiedono età comprese tra 1 e 9 anni. Non è stato rilevato il sambuco rosso, discre­tamente diffuso nelle chiarie, soprattut­to tra i grossi tronchi schiantati delle conifere ed in incipente espansione, per i motivi sopracitati.La rinnovazione è abbastanza scar­sa poiché manca una fase di decadenza già in corso di attuazione. I vuoti originatisi in seguito all’uragano del 1990 sono stati, perlopiù, invasi da rigogliose colonie di pioniere già citate in precedenza, le quali lasceranno il passo alle conifere arboree solamente dopo aver ridimensionato la rilevante fertilità accumulatasi nel suolo. Tutta­via, ad uno sguardo attento si può notare la presenza, rada ma costante, di piantine di conifere (vedi tabella), di buon accrescimento, tra le quali alcune certamente riusciranno a superare l’in­trico delle pioniere; naturalmente mag­giori probabilità di successo le possiede il tollerante abete, mentre il larice ed il peccio si dovranno accontentare delle aree meno invase dalle pioniere, ovvero i distretti più rocciosi e meno fertili in genere.Nelle aree interessate dall’uragano si è evidentemente instaurata una serie del “ciclo aperto” (Leibundgut, 1959), che ha acceso una forte competizione tra molte specie forestali e non, mentre nei soprassuoli ancora chiusi per ora non vi è presenza di rinnovazione ecce­zion fatta per più che sporadiche pian­tine di abete.Nella Foresta di Derborence ritro­viamo tutti gli stadi e tutte le dinamiche sopra illustrate, in apparenza scollegate tra loro, ma risultato di evoluzioni molto ben definite. Spesso vi sono abeti, ma preferibilmente pecci, allineati per decine di metri, risultato di rinnovazio­ne insediatasi su tronchi in disfacimen­to, peraltro osservabile anche in foreste coltivate (Susmel, 1980). Su alcuni tron­chi caduti il fenomeno è perfettamente osservabile nella sua interezza. L’inse­diamento della rinnovazione avviene dopo appena 2-3 anni dalla caduta del tronco di una pianta secca in piedi, mentre lo stesso fenomeno si verifica dopo almeno 8-10 anni se il tronco è caduto quando la pianta era vegeta al momento del crollo. In alcuni angoli del bosco, molto umidi e nei quali una fitta copertura di Petasites spp. ed Adenosty­les spp. impedisce qualsiasi affermazio­ne di elementi arborei, la presenza di tronchi caduti permette la rinnovazione del bosco, altrimenti seriamente ostaco­lata.

5. Presenze faunistiche (a cura di Andrea Rossi)

Nell’interno del bosco non sono state rinvenute evidenti tracce della pre­senza di ungulati (avvistamenti, orme, segni di alimentazione, fatte), sebbene nella zona siano segnalati camoscio, cervo e capriolo.Alcuni scortecciamenti da attribuire al camoscio sono stati rilevati nella parte alta della foresta, al limite della zona arborea; cosa decisamente preve­dibile considerando che il camoscio uti­lizza le quote più basse e quindi la zona boschiva nel periodo invernale quando le praterie d’altitudine sono coperte di neve e gli offrono meno risorse trofiche; in estate la specie si tiene oltre il limite del bosco e più di rado è avvistabile tra gli alberi.Nella parte medio-bassa della fo­resta non sono stati riscontrati segni di brucamento sulla rinnovazione di abete bianco, essenza appetita dagli ungulati, fenomeno molto comune nei boschi ad elevata densità di cervi e caprioli, mentre nella porzione più elevata, nel lariceto, i segni diventano più tangibili e sono rappresentati da apici vegetativi ripetutamente danneg­giati.Per quanto riguarda il cervo, esso è un animale originariamente di pianu­ra, spinto in montagna dall’invadenza antropica (caccia e disturbo); ma man­tenendo le originarie vocazioni utilizza le foreste aperte, dove alla copertura arborea si alternano ampie radure, si­tuazione molto diversa dalla foresta di Derborence, priva di vaste zone aperte. Sebbene il cervo utilizzi i boschi di conifere d’inverno, per la copertura sempreverde che protegge il suolo da un eccessivo deposito di neve, un’altra ca­ratteristica riscontrata nel bosco di Der­borence che mal si concilia con la pre­senza del cervo è la forte pendenza del terreno. La presenza del capriolo all’interno del bosco di Derborence non si è palesa­ta in modo diretto (avvistamenti) o indiretto (tracce). Il piccolo cervide, animale ecotonale, avrebbe a disposizione ai margini del bosco e nelle piccole radure le risorse alimentari di cui abbisogna (germogli, frutti, giovani foglie) e nello stesso tempo tra gli alberi troverebbe zone di rifugio ad esso adatte, ma, così come il cervo, mal tollera le pendenze eccessive del terreno che caratterizzano la foresta di Derborence.Altra presenza senz’altro discreta è quella dello scoiattolo e degli altri ro­ditori. Infatti non sono stati ritrova­ti i resti degli strobili rosicchiati, che si trovano in abbondanza nei boschi di conifere dove albergano in abbon­danza scoiattoli e topolini selvatici. È possibile che i roditori si siano con­centrati su altre fonti alimentari; ma è molto più probabile che il fenome­no sia dovuto al fatto che le popolazio­ni di queste specie non raggiungano elevate densità, cosa che depone in favore di un ecosistema decisamente equilibrato.Sono invece risultate appariscenti le tracce dei picchi; diversi grandi albe­ri, ormai morti, mostravano in modo evidente numerosi buchi e traforazioni di questi uccelli. Inoltre, era molto frequente ascoltare i diversi richiami dei picidi durante il transito nel bosco; e non è mancato in alcune occasioni l’avvistamento di qualche individuo di picchio tridattilo. Queste osservazioni non sono molto comuni, e sono tipiche degli ambienti forestali sani, laddove le piante raggiungono una notevole età e terminano il loro ciclo biologico sul posto, contribuendo così, anche con i loro tessuti morti, alla massima com­plessità dell’ecosistema.

6. Considerazioni

Nonostante l’esigua superficie occu­pata dalla foresta, la formazione possie­de indubbie proprie caratteristiche di importanza naturalistica e colturale davvero eccezionali.Dal punto di vista naturalistico la foresta offre infinite potenzialità di stu­dio e ricerca, rare altrove. Dal punto di vista colturale la composizione, la strut­tura e la dinamica delle diverse tipologie di soprassuolo permettono di osservare ed ammirare la Natura nel pieno delle sue funzioni, in piena libertà e svincola­ta da pregresse attività antropiche che ne possano pregiudicare e fuorviare lo scopo precipuo.In tale ambiente la forze naturali, incluse le frane e le avversità meteorolo­giche, svolgono pienamente le loro fun­zioni, talvolta inducendo preoccupazio­ne per lo stato di conservazione del sito, ma comunque interamente rientranti nel naturale ciclo evolutivo degli ecosi­stemi.Il crollo di parte del soprassuolo “maturo e stramaturo” (tali accezioni sono del tutto arbitrarie in tale conte­sto) del bosco misto di peccio ed abete, se da un lato ha letteralmente stravolto l’assetto paesaggistico del luogo, dall’al­tro permette la rinnovazione della fore­sta, utilizzando latifoglie pioniere come mediatrici ed ospiti temporanee delle plaghe devastate, provocando un note­vole accumulo di legname disfatto da “eserciti” di parassiti con relativi preda­tori al seguito. Osservando un tale qua­dro di manifestazioni naturali ci si libera la mente da assurde e preconcette con­vinzioni circa la presunta pericolosità di piante “deperienti” e morte in bosco, ipotetico veicolo di patologie propaga­bili all’intera foresta. Se esiste un perico­lo per la sopravvivenza delle foreste, questo va ricercato nella cupidigia e nel­la stoltezza dell’uomo; altri elementi naturali sono da assolvere con formula piena.La foresta naturale possiede suoli di elevata fertilità, soffici e profondi, ricchi di strame e microfauna. Gli apparati radicali degli alberi, peccio incluso, rag­giungono profondità superiori che non nei boschi coltivati e ciò lo si evince anche dal fatto che la maggior parte degli alberi non è stata divelta dall’ura­gano ma presenta il tronco schiantato a diverse altezze.Gli apparati radicali difficilmente sono visibili in superficie tranne nei tratti più ripidi del pendio, dove l’azione drenante e stabilizzante delle radici è ben visibile in tratti “scalinati”; tutta­via, anche in questi casi lo scheletro non affiora.Interessante è il comportamento dell’abete il quale, a differenza delle regioni appenniniche, non attua la co­siddetta “discesa” nei boschi più termo­fili, anzi, la specie sta tentando, maancora con scarso successo, la coloniz­zazione delle formazioni pure e miste di larice con o senza peccio associato. In questo caso il fattore limitante sono le stazioni troppo aride e/o con suolo superficiale, il continuo brucamento de­gli ungulati e la ventosità delle regioni superiori; in questi casi l’abete resta confinato nel piano dominato, assu­mendo spesso portamento arbustivo e policormico.Nella foresta di Derborence sono anche ben visibili, purtroppo, segni di deperimento del bosco e, come in altri casi, l’abete è la specie più colpita. All’interno della parte naturale i danni sono poco evidenti e si sovrappongono a quelli dell’uragano; vengono più col­pite le piante di età compresa (presunta) tra i 100 ed i 150 anni, mentre sembrano del tutto indenni i “vecchioni”. Netta­mente più frequenti sono, invece, i dan­ni nelle parti adiacenti il nucleo natura­le. Soprattutto nella porzione orientale della conca di Derborence molti abeti sono deperienti già in età relativamente precoce (60-100 anni) o, comunque ben lontani dalla soglia minima di longevità fisiologica. In questi settori la specie che sembra succedere agli esemplari morti sembra essere il sorbo degli uccellatori ed il peccio, ma anche quest’ultimo presenta segni di invecchiamento preco­ce. Del tutto indenni le latifoglie, il pino silvestre ed il larice, perlomeno nelle aree esaminate. L’estate 1998 è stata particolarmente calda e secca, tale da determinare fenomeni di arrossamento delle chiome dei faggi e dei sorbi situati nelle località più esposte; in alcuni gior­ni di agosto il termometro ha raggiunto e superato i 30°, sicché alcuni fenomeni potrebbero essere stati causati da un eccessivo stress idrico, aggravato dall’e­levata ventosità del sito in questione. Tuttavia, anche i forestali svizzeri la­mentano danni di nuovo tipo in diverse zone adiacenti Derborence da un decen­nio circa.

RIASSUNTO

La foresta di Derborence rappresenta uno degli ultimi residui di bosco naturale del continente europeo. Nonostante la sua esigua superficie, solo 25 ha, tale formazione assume un valore elevatissi­mo in quanto si tratta di una formazione mista di abete e peccio in perfetto equilibrio omeostatico. Un uragano ha atterrato molti alberi, instaurando un ciclo di ricolonizzazione delle aree scoperte, ulteriore arricchimento per l’ambiente naturale. L’autore analizza la struttura e la composizione del bosco, estrapolandone considerazioni sulla gestione delle foreste coltivate.

SUMMARY

DERBORENCE WOOD

The forest of Derborence represents one of the last residues of natural wood of the European conti­nent. Notwithstanding his small surface, only 25 hectares, such formation assumes an elevated value in how much is dealt with a mixed formation of fir and norway spruce in perfect omeostatic equilibrium. An hurricane has landed many trees, establishing a cycle of re-colonization of the open areas, ulterior enrichment for the natural environ­ment. The author analyzes the strutture and the composition of the wood extrapolating considera­tions of it on the management of the cultivated forests.

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