Caratteri dell’ambiente
Il massiccio dei M.ti della Laga è situato al confine tra le regioni Lazio, Abruzzo e Marche. La catena è disposta secondo i meridiani, fatto questo che determina un’esposizione prevalente ad occidente ed oriente, ma le creste che si diramano dall’asse principale consentono la creazione di versanti esposti nettamente a nord e sud. Le quote sono abbastanza rilevanti: la vetta più alta, il M. Gorzano, tocca i 2458 m; quasi tutte le vette della catena oltrepassano abbondantemente i 2000 m (P.zzo di Sevo, 2422; Cima Lepri, 2455, Laghetta, 2334). La matrice geologica è costituita da rocce arenacee e marnose (Formazione della Laga) che non consentono alla morfologia di assumere quell’aspetto caratteristico delle montagne calcaree delle regioni contermini. Difatti l’aspetto di questi monti è dolce, povero di pareti rocciose ma ricco di incisioni torrentizie, spesso anche molto profonde; ricorda un le lontane regioni dell’Appennino tosco-romagnolo. Le tracce delle passate glaciazioni sono meno accentuate che sulle altre montagne appenniniche. La natura litologica favorisce i processi di erosione e smantellamento delle forme di esarazione tipiche della morfologia glaciale (circhi, valli ad U, ecc.). Tuttavia qua e là si notano forme riconducibili a circhi glaciali e morene, soprattutto nella Valle del Rio Castellano e nella Valle Castellana, dove sono presenti cordoni morenici ben sviluppati e dove, tra l’altro, si trova il più importante gruppo di abeti del Bosco Martese. I suoli sono generalmente di tipo bruno-acido (pH compreso tra 4.5 e 6.5). Prevalgono i suoli bruni lisciviati. A causa della natura geologica fliscioide i suoli presentano un elevato potenziale idrico di ritenuta, con conseguente reticolo idrografico molto sviluppato. Il clima è di tipo mediterraneo, ma la vicinanza delle coste adriatiche determina un aumento delle condizioni di continentalità. Infatti, nonostante il valore assoluto delle precipitazioni non sia particolarmente elevato (non oltrepassa i 1800 mm), l’influenza delle perturbazioni adriatiche causa un aumento dello stress termico invernale ed un aumento delle precipitazioni estive; frequente nei mesi invernali la galaverna. La nevosità è abbondante ed il manto nevoso permane al suolo a lungo: 5 mesi a 1500 m, 7 mesi e più oltre i 2000 m. Diffusi i nevai che perdurano fino ad estate inoltrata. La vegetazione forestale è analoga a quella del vicino Gran Sasso. Da 400 ad 800 m incontriamo il leccio (Quercus ilei L.), frequentemente abbarbicato alle bancate di roccia. Diffusissima è la “macchia” a carpino nero (Ostrya carpimfolia L.), orniello (Fraxinus ornus L.), roverella (Quercus pubescens L.). I consorzi meno degradati sono edificati dal cerro (Quercus cerris L.), misto ad acero (Acer obtusatum L.). Più in alto (dagli 800-900 m) compare il faggio (Fagus sylvatica L.), sporadicamente associato a frassino (Fraxinus excelsior L.), tiglio (Tilia cordata Scop.), castagno (Castanea sativa Mill.), acero riccio (Acer platanoides L.), olmo montano (Ulmus glabra Huds.), agrifoglio (Ilei aquifolium L.), acero di monte (Acer pseudoplatanus L.) e tasso (Taxus boccata L.). L’abete vegeta dagli 800 fino ai 1800 m. Il limite superiore del bosco, artificialmente abbassato, si aggira attorno ai 1850 m. I due versanti, occidentale ed orientale, sono molto diversi, sia dal punto di vista morfologico che forestale. Il primo è molto acclive e la copertura forestale è stata annullata in molte località. Il secondo è più morbido e la copertura forestale è più continua ed estesa.
Vicende storiche
Nei primi anni del Novecento, la Laga teramana conobbe diverse stagioni di utilizzazione forestale. La più intensa fu quella del 1918-19, quando la ditta Sutter impiantò una teleferica che partiva al piazzale del Ceppo ed arrivava fino a Rocca S.Maria (fraz. Belvedere). Il bosco venne assoggettato al classico taglio raso con riserve, mentre gran parte del Bosco della Martese fu convertito a ceduo matricinato (Banti, 1940). Non è dato sapere quali zone furono interessate e quali escluse, ma da qualche rarissima immagine degli anni ’30, si può capire che la zona maggiormente interessata fu quella più orientale. Infatti, in queste immagini (Banti, 1939), si vedono boschi apparentemente non utilizzati da almeno 50-60 anni, dalla classica struttura biplana, nei quali l’abete costituisce la specie dominante. Altre informazioni ci vengono dalle foto aree RAF del 1945 ed IGM del 1954 nelle quali si vedono molto bene i segni dei tagli del 1919, ma non più quelli della seconda metà dell’Ottocento. Nelle ortofoto del 1945 si apprezza l’esistenza di vasti tratti di faggeta non sgomberata, ricchi di piante vecchie e colossali. In queste preziose immagini si vedono ancora molto bene le zone interessate dai tagli del 1918-19, concentrate nella parte centrale o orientale della Martese, ed i segni dei tagli ottocenteschi, nella parte più occidentale del bosco. Nelle successive ortofoto del 1954, gran parte delle riserve colossali sono scomparse e parte della Martese è stata ridotta a ceduo matricinato (aie carbonili evidenti). La parte occidentale è ancora integra, mentre sono evidenti i segni delle teleferiche. Nelle successive ortofoto del 1975 si nota l’avvenuta utilizzazione della parte più occidentale della Martese, mediante l’impianto di ben 4 teleferiche, con annessa piazzola di carico situata nei pressi della pista forestale principale. Riassumendo il tutto, possiamo affermare che le utilizzazioni interessarono diversi tratti dei boschi del Rio Castellano e l’intero Bosco Martese, ma furono eseguiti a “macchia di leopardo”. Infatti, è assai probabile che vennero utilizzati i settori dei boschi ritenuti più maturi e ricchi di piante economicamente valide, mentre vennero trascurati i settori laddove gli ingenti tagli ottocenteschi avevano impoverito la compagine boschiva in maniera rilevante. Nel 1935, anno dei rilievi di Banti (op. cit.), la densità media degli abeti nel bosco del Colle Romicito oscillava tra le 120 piante del versante nord alle 350 piante del versante meridionale (loc. “La Piana”). Sempre sul C.Romicito, vi erano 30 piante stramature e 70 costituenti novellame (fino a 17,5cm di diametro). Nel Bosco Martese, già in parte ceduato ed allora in avviamento all’alto fusto, la densità media era di 320 piante/ettaro, di cui 20 “decrepite” ed in cattive condizioni di vegetazione e 600 di novellame. Pochi anni più tardi ripresero le utilizzazioni. Dalle foto aeree del 1952 e del 1954 si evince benissimo l’intensità dei tagli, supportati da un grande dispiego di mezzi, quali teleferiche e decauville, nonché le numerose aie carbonili. Il versante meridionale del C.Romicito venne tagliato interamente a raso, così come tutta la fascia basale delle faggete del Rio Castellano e parte del Bosco Martese, dove ancora oggi la parte più elevata del bosco è un ceduo di faggio. Si salvarono solamente le piccole abetine di Altovia e Cortino, da tempo trasformate in abetine pure. Lo scarso assortimento del loro legname fu, si può dire, la loro salvezza, in quanto di scarso interesse economico e fuori dal raggio d’azione delle ditte boschive. Basti pensare che dal 1700 ad oggi, la superficie occupata dall’abete è, più o meno, sempre la stessa. Venne eliminata la “Metella”, strada lastricata che secondo alcuni studiosi risaliva al periodo classico e che attraversava il Bosco della Martese per dirigersi nel versante laziale del monte (Alesi et al., 1992). Gli altri nuclei, quelli laziali e quelli marchigiani, ebbero meno fortuna. Sui versanti laziale e marchigiano, la ceduazione e la riduzione intensiva della faggeta provocarono una rapida ed inesorabile rarefazione dell’abete che nel Lazio è scomparso oramai da almeno duecento anni. Per contro, nella vallata di Umito, in territorio marchigiano, l’abete, nonostante l’intensa ceduazione del bosco, è riuscito a superare il momento critico degli ultimi cento anni, anche se ha perso gran parte del terreno occupato in passato. Basti pensare alle “Abisaje” di Monte Acuto, prosecuzione della Valle della Corte, distrutte nel secolo scorso. Nel frattempo la foresta di S. Gerbone era stata assunta dallo Stato ed era iniziata l’opera, non sempre riuscita, di rimboschimento delle aree denudate cinquant’anni prima. Ancora oggi sono visibili e percorribili le numerose piste utilizzate dai carbonai che percorrono in ogni direzione i versanti della Valle del Rio Castellano e Castellana e le ceppaie colossali di abete e faggio marcescenti che stanno lì a testimoniare la loro passata esistenza. Altri tagli, anche se di moderata intensità, sono stati fatti fino all’istituzione del Parco Nazionale del Gran Sasso-Laga. Da notare la grande lacuna dei boschi compresi tra il Bosco della Martese ed i nuclei di Cortino. Solamente per il Fosso della Fiumata si è appreso dai locali che, decenni addietro, l’abete era ancora presente anche in quei boschi e tale testimonianza è comprovata dal ritrovamento nel Fosso sopra Padula, svariati anni fa, di un tronco di abete seppellito nei sedimenti, del diametro di circa 50 cm. Nessuna traccia, presente e passata, abbiamo per i grandi boschi del versante meridionale, governati generalmente a fustaia ed in buone condizioni di vegetazione.Il nucleo di Crognaleto (Valle Trocca), segnalato dal Banti, è scomparso.
Diffusione attuale dell’abete
I nuclei di abete che orbitano attorno all’abitato di Cortino si trovano nella parte sud-orientale dei Monti della Laga, nel bacino idrografico del fiume Vomano. Le abetine sono in parte pure ed in parte miste con faggio e carpino nero; si trovano ad una altitudine media notevolmente più bassa rispetto ai settori descritti in precedenza. L’abete è presente nelle seguenti località, da oriente verso occidente: M. Bilanciere, Selvetta, Colle Micedi, Selva di Comignano, Fonte della Spugna, Prati di Lame, La Collina, Coste della Croce, Coste Laretta, Fosso Zingano, Cafrascale, Bosco Favale, Perone. A queste si devono aggiungere le piante sporadiche che sono state osservate nel fosso sotto Cortino, sotto il Prato Pantanelle (Altovia), nella faggeta del Colle Martino e nel bosco sopra il Molino di Valle Vaccaro. La quota di vegetazione è compresa tra gli 800 ed i 1435 metri. Il raggruppamento più esteso occupa tutto l’acrocoro centrale della Collina (1435 m). Le abetine pure sono denominate “Abetina di Fonte Spugna” e “Selva di Comignano”. Si tratta di due piccoli nuclei di circa 6-7 ettari ciascuno, un tempo disgiunti e che ora si presentano senza più soluzione di continuità. La struttura è prevalentemente coetanea, anche se piccole superfici sono irregolari. Le dimensioni raggiunte dall’abete sono modeste; generalmente non superano i 20-25 metri di altezza ed i 50-60 centimetri di diametro. Eccezionalmente, come sulla sommità della Collina, si riscontrano esemplari di 70-90 cm, ma sono in numero esiguo. Rispetto alle descrizioni del Banti si nota una maggiore estensione del nucleo principale, che si è esteso ad abbracciare l’intero bosco “Caparrecce” ed ha oltrepassato il crinale del monte per iniziare a discendere nel ceduo di faggio di Macchiatornella. Molte piante situate nei luoghi più esposti sono sradicate o cimate dalla galaverna.
La rinnovazione è attivissima, sia nei tratti di abetina rada che nel ceduo di faggio avviato all’alto fusto. L’abete, in questo ambiente, riesce a colonizzare le superfici pascolive abbandonate ed invase dal ginepro e dal cinto (Cistus incanus L.). Difatti, lungo le pendici orientali del M. Bilanciere si riscontrano migliaia di abetini, chiaramente sofferenti, che spuntano dai cespugli di ginepro e che raggiungono a malapena i 4-6 metri di altezza. Condizioni migliori si hanno laddove sono stati effettuati rimboschimenti con essenze diverse (Pinus nigra Arnold, Pinus nigra Arn. subsp. laricio Maire, Abies cephalonica Loud, Abies numidica De Lannoy, Abies pinsapo Boiss, Picea abies Karst.) e laddove l’ostrieto ha ripreso vigore dopo l’evidente ridimensionamento del pascolo. In questi casi le dimensioni raggiunte dall’abete sono nettamente superiori e migliori sono anche le sue condizioni vegetative. I locali confermano quanto esposto sopra, asserendo che fino agli anni ’40 il pascolo caprino ostacolava continuamente la rinnovazione dell’abete, impedendone l’espansione nei boschi limitrofi e che il fenomeno dell’espansione dell’abete è iniziato a partire da quella data. A conferma di ciò sta il ritrovamento di numerosi piccoli nuclei secondari di abete che gravitano attorno ai tre nuclei di Cortino ed Altovia. Le condizioni vegetative dei gruppi puri di abete sono buone, ma si nota un’eccessiva degradazione dei suoli, fatto questo dovuto in buona parte all’eccessivo pascolamento ed all’acclività dei versanti, aggravati dalla natura argillosa delle montagne. Le abetine di Altovia (Cafrascale e Castello) sono costituite da due piccoli nuclei di abete puro, circondati da superfici nude e da cedui di faggio. Confrontando l’immagine presente nel lavoro del Banti con l’aspetto attuale si nota come ben poco sia cambiato nel lasso di tempo intercorso. Si assiste solamente ad una maggiore copertura arbustiva ed arborea delle aree limitrofe, indizio di un abbandono progressivo della zona. Inoltre, si nota una evidente espansione dell’abete nei fossi, nei gineprai e nelle superfici scoperte. La struttura è coetanea e la rinnovazione avviene, anche in questo caso, nelle radure, tra i cespugli e nel ceduo di faggio non eccessivamente denso.
L’età delle abetine di Cortino non è elevata (60-120 anni), in quanto i tagli, data la vicinanza dei centri abitati, sono stati eseguiti sempre con intensità più o meno costante. Tuttavia, si ha l’impressione che l’età fisiologica di queste piante sia nettamente inferiore a quella riscontrabile nei settori più elevati della Laga. Difatti, la maggior parte degli esemplari di dimensioni maggiori ed età più avanzata presentano, nella maggior parte dei casi, la chioma a nido di cicogna e chiari ed evidenti sintomi di deperimento, non rapportabili ad infezioni fungine (Armillaria e Fomes). Oltre a queste ristrette aree, l’abete era presente, fino a non molto tempo fa, anche più ad oriente, come testimonia il nome del borgo “Abetemozzo“, a non più di 5 km di distanza da Cortino.
Impianti artificiali di o con abete sono presenti in molte località: al Ceppo, nel Bosco della Langamella, lungo il corso del Rio Fucino (sotto la diga), nel Fosso di Selva Grande, alla Fonte Restoni, ecc: Tutti questi impianti, di 40/70 anni, si trovano in ottime condizioni vegetative e spesso presentano già rinnovazione nelle adiacenti faggete o cerrete. Da notare che non si è verificato quanto previsto dal Banti oltre sessanta anni fa, ossia la prevedibile “parabola discensiva dell’abete” nei boschi puri di tale specie, a vantaggio del faggio; la cosiddetta “alternanza” non c’è stata né sembra debba verificarsi nell’immediato futuro. Al contrario, l’abete continua ad invadere tutte le formazioni boschive limitrofe.
Da segnalare la criticità delle abetine della Laga dovuta al potenziale inquinamento genetico proveniente dai rimboschimenti adiacenti. Senza ombra di dubbio, i gruppi di Abies cephalonica Loud. presenti nella contrada del Ceppo rappresentano un grosso pericolo per le abetine della Martese e del Rio Castellano, così come il rimboschimento del M. Bilanciere, dove vi sono autentiche “insalate” di Abies (alba, cephalonica, numidica) . A tale riguardo si rimane attoniti di fronte alla notevole mole di ricerca effettuata in passato nei confronti dei nuclei residui di Abies alba Mill. appenninici, con tanto di ricerche finanziate e convegni, che stridono fortemente con l’assenza totale di interventi pratici adeguati volti alla loro salvaguardia. In merito al rischio di inquinamento genetico dell‘A. alba con l’A. cephalonica, tale rischio concreto si palesa in una ibridazione tra le due specie, largamente interfertili, che comporterebbe una perdita di competitività nei confronti del Fagus sylvatica L..
Considerazioni
Anche sui Monti della Laga l’abete è ridotto a vegetare nei distretti “meno antropizzati” del massiccio. Nel passato la specie fu molto più abbondante, come già ampiamente descritto nel capitolo “Vicende storiche”. Tuttavia oggigiorno l’abete svolge ancora un ruolo importante nella edificazione delle cenosi forestali locali. I popolamenti meglio conservati e di più alto valore biologico e selvicolturale sono certamente quelli della valle Rio Castellano e del Bosco della Martese. Da notare un aspetto singolare: i popolamenti situati presso i centri abitati sono puri, mentre quelli posti in località meno accessibili sono sempre misti con faggio ed altre latifoglie. Lo stesso accade nel Molise. È evidente che la formazione pura di abete è di origine colturale. Le abetine di Cortino sono analoghe, anche se in scala molto più ridotta, al bosco “Abeti Soprani” di Pescopennataro ed all’abetina di Rosello, entrambe nell’alta valle del Sangro. Anche qui le abetine somo situate proprio alle porte del paese, apparentemente in contrasto con la teoria secondo la quale a maggiore distanza dai centri abitati equivale una maggiore conservazione degli ambienti forestali. Ebbene, è probabile che il bosco puro sia stato creato e mantenuto artificialmente proprio per fornire legname da opera, mentre il ceduo di faggio forniva (e fornisce) il combustibile. Non a caso, molti infissi e travature delle abitazioni sono state realizzati con legno di abete. Si ha la netta impressione che molti paesi dell’Abruzzo, della Toscana e del Molise avessero il proprio bosco di abete dal quale ricavare i diversi tipi di assortimento legnoso necessari ai lavori urbani ed anche come prodotto da vendere sul mercato, sempre affamato di legname da opera. Probabilmente, le abetine di Monte Acuto, di Nerito e di Abetemozzo, asservivano a questo scopo. Quanto esposto è confermato dalla struttura delle abetine stesse: si notano benissimo dei centri di vegetazione puri, circondati da formazioni miste di abete con altre specie, evidente conseguenza di infiltrazioni successive. D’altronde, lo stesso fenomeno si sta verificando e si è verificato in altri rimboschimenti secolari di abete realizzati lungo l’intera catena appenninica. L’unica differenza risiede nel fatto che in questo caso la memoria storica si è persa. Lo stesso si potrebbe dire dei non lontani paesi marchigiani di Abetito e Pian d’Abete e di quello umbro di Abeto, tutti gravitanti nell’area dei Sibillini. Anche questi borghi si trovano ad altezze comprese tra i 700 ed i 1000 metri e tutti ricordano boschetti puri di abete scomparsi da secoli (Rovelli, 1995). La vicinanza dei paesi ha consentito a queste abetine di giungere fino a noi, ma nella maggior parte dei casi, vicende storiche diverse hanno favorito la loro scomparsa negli ultimi duecento anni. L’abetina di M.Acuto venne rasa al suolo per fornire legname ad Ascoli Piceno; quella di Nerito sembra per procurarsi nuova terra da coltivare (Banti, 1939) e quella di Abetemozzo per eccessiva cupidigia del proprietario. Stessa sorte stava toccando all’abetina di Altovia (Cafrascale): all’epoca del Banti si si stava disboscando la porzione orientale del bosco per procurarsi nuova terra da coltivare. Tutte queste abetine avevano un fattore comune: si trovavano nelle immediate vicinanze di paesi ed erano tutte situate ad altezze medio basse, generalmente non oltre i 1200 metri. Tutte allignavano su suoli marnoso/arenacei e tutte avevano boschi misti di faggio e abete più a monte. Volendo suggerire un’ipotesi, forse eccessiva ma provocatoria, si potrebbe azzardare che questi boschetti fossero di impianto artificiale, realizzati mediante il prelevamento di selvaggioni dalle allora floride foreste montane.
La struttura attuale dei boschi della Laga è il risultato di una serie di massicci interventi selvicolturali, ripetuti nel tempo con cadenza circa trentennale, che hanno avuto inizio 160 anni fa. Attualmente, dopo tali pesanti interventi, la fertilità dei suoli, tranne documentate eccezioni, è notevolmente scemata. La vegetezione dell’abete è discreta e la specie è in ripresa quasi dovunque laddove le utilizzazioni hanno lasciato una quantità sufficiente di riserve. La rinnovazione è presente e riesce a sopraffare il faggio quando le condizioni di luminosità e di densità della faggeta lo permettono. La rinnovazione di abete è quasi assente alle quote più elevate, soprattutto nel Bosco della Martese, dove la ceduazione della faggeta ha creato un soprassuolo molto denso. Nella valle del Rio Castellano si è osservata una ricca rinnovazione d’abete nei vuoti creatisi da un paio di piccole frane avvenute tra il C.Romicito ed il M.Pelone, ad oltre 1700 metri di altezza e nel crestone dove si trova il monumentale abete che somiglia ad un cedro, a 1620 metri. Per quanto riguarda il Bosco della Martese, la ceduazione della faggeta, unitamente alla quota, impediscono e/o rallentano la degradazione della lettiera del faggio, ma la presenza di abeti monumentali sparsi nel ceduo indicano la potenzialità di vegetazione della conifera anche alle quote più elevate. Le utilizzazioni intensive hanno provocato l’inesorabile erosione e dilavamento di buona parte dell’humus e del suolo e questo è ben visibile osservando gli apparati radicali quasi scalzati che possiedono molte riserve di faggio e abete, nonché la diffusione del mirtillo nel sottobosco. Tale stato di cose è stato aggravato anche dal pascolo, di fatto incontrollato, che per molti anni ha attraversato le tagliate, contribuendo così alla formazione di oasi di ceduo all’interno delle fustaie. La fisionomia di questi boschi è analoga a quella di tutte le foreste appenniniche utilizzate massicciamente negli ultimi 150 anni. Nella parte bassa i soprassuoli sono coetanei a densità normale o colma, indici di pratiche colturali (diradamenti e sfolli) abbastanza costanti. Procedendo verso l’alto e nella parte più interna delle vallate la fisionomia diviene sempre più difforme e ricca di piante vecchie, nuclei di rinnovazione e spessine mai diradate, alberi monumentali, ecc.; tutti aspetti che denotano utilizzazioni intense e concentrate nel tempo. Questo aspetto diviene preponderante alle quote più elevate e laddove le difficoltà di esbosco divengono sempre più consistenti e gli interventi sono sempre più antieconomici. Allora si hanno spesso fustaie biplane, spessine e perticaie densissime e numerose vetuste riserve di faggio e abete deperienti o secche in piedi oppure crollate al suolo.
Infine, nel bacino del Rio Castellano, il limite superiore del bosco è orlato da una fustaia coetaneizzata di protezione costituita da piante di età superiore ai 200 anni. Gli stessi caratteri si ritrovano nell’adiacente Valle Castellana, ma, come già detto in precedenza, in questo caso la parte superiore del bosco è edificata da un fittissimo ceduo, dell’età approssimativa di 60-80 anni a cui biosgna aggiungere la curiosa striscia di faggi sciabolati staccata dal bosco sottostante. In mezzo al ceduo si rinvengono, abbandonati sul letto di caduta, i tronchi cariati e le ceppaie marcescenti di grossi abeti e faggi tagliati dopo la visita del Banti. La trasformazione di questa fascia altimetrica del bosco in ceduo ha definitivamente escluso l’abete dal consorzio boschivo. È interessante notare come l’abete, nella Valle del Rio Castellano, rimanga confinato nel lato abruzzese, rifuggendo, almeno apparentemente, la parte marchigiana (gli esemplari presenti sono più che sporadici). Ciò sta ad indicare una diversa gestione del patrimonio boschivo. Difatti nella parte marchigiana i boschi sono esclusivamente cedui e la parte di proprietà demaniale, attualmente governata ad alto fusto, è il risultato di una conversione effettuata al momento dell’acquisto da parte dello Stato. Infine, le analisi polliniche eseguite dal Marchetti negli anni ’30 hanno comprovato la presenza dell’abete anche sugli altri versanti fino negli strati più superficiali. Questo testimonia inequivocabilmente una maggiore diffusione della specie fino a pochi secoli addietro su un’area ben superiore a quella rilevata attraverso i toponimi e le indicazioni dei locali. La produttività dei boschi della Laga è buona, anche se in passato lo era certamente di più. I rilievi dendrometrici hanno evidenziato una grande ripresa dei soprassuoli misti di faggio e abete nonostante i tagli scriteriati del passato. I cedui puri di faggio sono in costante ripresa ma i volumi sono nettamente inferiori ai soprassuoli misti con l’abete. Le formazioni di Cortino raggiungono i maggiori volumi perché situati in zone più favorevoli dal punto di vista climatico e perché meno sfruttate negli anni ’50-’60.
Conclusioni
Come abbiamo visto, la presenza dell’abete nel comprensorio della Laga è dovuta a due fattori nettamente opposti: la lontananza dalle grandi arterie e dai grossi centri e la vicinanza a piccoli centri dediti all’agricoltura ed alla pastorizia. Il primo fattore ha determinato la conservazione, quasi integrale, fino a non più di cento anni fa, di estesi consorzi boschivi edificati dal faggio e dall’abete, mentre il secondo ha portato alla formazione di piccoli nuclei di abete coltivato allo stato puro, situati alle porte dei paesi. Inoltre, come anche per la maggior parte delle faggete del centro-sud, le utilizzazioni intensive dell’ultimo secolo hanno provocato una contrazione dell’areale di vegetazione della specie la quale, tuttavia, conserva sui Monti della Laga più che altrove, il carattere di specie edificatrice di consorzi misti con il faggio nella fascia calda e fredda del Fagetum. Infine, la costituzione del Parco Nazionale del Gran Sasso-Laga lascia ben sperare in una prossima rivalorizzazione di questi boschi, meritevoli di una maggiore attenzione da parte dei tecnici preposti alla loro gestione e conservazione.
DATI DENDROMETRICI DEI BOSCHI DELLA LAGA: Monti della Laga
RIASSUNTO
Sulla catena della Laga è presente un importante centro di vegetazione di abete bianco; certamente uno dei più importanti dell’intera catena appenninica. La specie è localizzata sul versante orientale del massiccio. L’autore ne descrive la distribuzione, l’ecologia e, sulla base di testimonianze e documenti, ne ricostruisce la passata diffusione. Anche sui Monti della Laga, l’abete è in costante ritiro da tutte le località maggiormente interessate dalle attività antropiche. Infatti, la specie si è conservata solamente nelle aree più interne della Laga ed in quelle interessate dalle utilizzazioni forestali solamente nell’ultimo secolo.
Infine, l’autore esamina la presenza di abetine pure nei pressi di alcuni centri abitati, giustificandone l’esistenza con l’azione selettiva dell’uomo, che ha eliminato le altre specie meno pregiate per garantirsi un rifornimento costante di legname da opera.
SUMMARY
SILVER FIR (ABIES ALBA MILL.) ON THE
LAGA MOUNTAINS
A very important centre of Silver fu vegetation is present on the Laga Mountains; certainly one of the most important of the whole Apennines chain. The species are concentrated on the east side of the massif. The author describes his distribution, the ecology, and reconstructs the past diffusion on the basic of evidence and documents. On the Laga Mountains too, the fir wood is constantly retreating, from all the localities more interested by antropic activities. In fact, the species remain only in the more interior Laga zones and in ones interested by the forest utilization only of last century. At last, the author examines the presence of fir wood, near some towns and deduces that the human selection has eliminateti less valuable species in order to secure a constant supply of timber.
BIBLIOGRAFIA
Alesi A., Calibani M., Palermi A. (1992) – Monti della Laga, Guida escursionistica. S.E.I.
Arcioni D. (1989-90) – Risultati delle ricerche metodologiche delle formazioni di Abies alba Mill. Dei M. della Laga. Tesi di laurea in Scienze Forestali. Università di Viterbo. Anno accad. 1989-90.
A.S.F.D. (1995) – Relazione sullo stato dell’Azienda di Stato per le Foreste Demianali.
Banti G. (1939) – Presenza e distribuzione dell’abete bianco nell’Appennino teramano, Rivista Forestale, pag. 39-49.
Bonifazi M. (1990-91) – Indagini sulle potenzialità di diffusione di Abies alba, Mill. nei boschi misti dei M. della Laga. Tesi di laurea in Scienze Forestali. Università di Viterbo. Anno accad. 1990-91.
Gabbrielli A. (1990) – I boschi degli Abruzzi e del Molise: testimonianze dal XVIII secolo ai nostri giorni, Acc. It. di Sc. Forestali. Vol. XXXIX, pag. 167-183.
Gabrielli A., La Marca O., Paci M (1990) – L’ abete bianco sull’Appennino, Cellulosa e Carta, pag. 2-16.
Giacobbe A. (1949-50) – L’ecologia dell’abete bianco, Nota I, II, III, IV. Archivio Botanico.
Longhitano N., Ronsisvalle G.A. (1974) – Osservazioni sulle faggete dei Monti della Laga, (Appennino Centrale). Notiz. Fitosociologico n. 9, pag. 55-82.
Rovelli E. (1994) – L’abete (Abies alba Mill.) sul Gran Sasso: distribuzione, storia, ecologia. Monti e boschi, n. 2, pag. 22-26.
Rovelli E. (1995) – La distribuzione dell’abete (Abies alba Mill.) sull’Appennino. Monti e Boschi n. 6, pag. 5-13.
Rovelli E. (1986) – L’abete bianco nell’Appennino teramano, L’Appennino, pag. 8-10.
Tondi G., Plini P. (1995) – La flora dei Monti della Laga. Versante laziale,
Zodda G. (1959) – Studi sulla flora teramana, IV. Azione antropica sul Bosco del Ceppo. Ngbi n.s. Vol. LXVI n. 1-2, pag. 253-265.
Molot bello ed esaustivo, incredibili le numerose testimonianze antiche e ancor più incredibili sono i commenti pro-natura già presenti alla fine dell’800! Non l’avrei mai detto che qualcuno avesse notato e criticato lo sfruttamento intensivo in maniera così acuta e scientifica.
Una cosa non mi è chiara: il ph del terreno è 4.5/6.5…(acidi), subito dopo scirvi:
Prevalgono i suoli bruni lisciviati (quindi basici, da liscivia)…oppure lisciviati significa privati della liscivia, quindi della componente basica del terreno?
gli “ecologisti” ci sono sempre stati, solo che erano una frazione infinitesimale della popolazione ed avevano contro una società rurale assai sviluppata e motivata.
I suoli lisciviati sono quelli privati della componente organica e delle basi e quindi acidi e poveri
articolo e galleria bellissimi , sempre un piacere leggerli. Secondo me, la minaccia attuale all’abete e alle foreste, è rappresentata da un ritorno alla legna e alle coltivazioni in quota. Sul progetto praterie del parco, si nomina la laga per nuove utilizzazioni a pascolo, per ridurre il carico su Campo imperatore…una scelta del genere, se non controllata, annienterebbe le rinnovazioni.